lunedì 24 settembre 2012

Della roulette russa


Guardo le Disponibilità per incarico a tempo determinato A.S. 2012/13 e loro guardano me. Canosa, Andria, Bisceglie, Terlizzi, Molfetta, Gravina, Poggiorsini, Bitonto, Bari, Modugno, Binetto, Rutigliano, Monopoli, Gioia, Sammichele, Turi. Il mio prossimo anno scolastico sta lì in mezzo. O, almeno, dovrebbe. Sperando che, quando sarà il mio turno, mi resti qualche sede "praticabile". Alcune sono semplicemente troppo lontane perché possa accettare. Sarò la settima a scegliere. Diciotto sedi disponibili per una cinquantina di convocati. La consueta roulette russa sta per avere inizio. Tra meno di 24 ore sarà tutto finito. La mattinata si consuma nell'attesa, seduta in mezzo a decine di altri docenti precari di altre classi di concorso, con i nervi contorti per l'ansia mentre quelli che mi precedono fanno le loro scelte e io prego mentalmente che non prendano le sedi che prenderei io. Ma, in genere, sono preghiere che restano inascoltate. 
Ogni volta, quando chiamano il mio nome, sento il cuore che mi salta in gola. Di solito, cominciano a tremarmi le mani. Mi siedo davanti all'incaricato dell'Ufficio Scolastico Provinciale ed è come se mi mettessero in mano un revolver carico. Poi scelgo. Premo il grilletto. A occhi chiusi. Senza fiato. Senza più saliva in bocca. L'incaricato registra la mia scelta e mi dà il foglio con la proposta di assunzione che dovrò consegnare alla segreteria della scuola che redigerà il contratto effettivo. La maggior parte delle volte non conosco la scuola che ho scelto (o le scuole, ché sono state quasi sempre almeno due fino a oggi). È un salto nel vuoto. L'unica certezza è la distanza che dovrò coprire ogni giorno per arrivarci. Anzi, no. Ce n'è un'altra: la certezza di stare per ricominciare tutto da capo. Quest'anno, per il decimo anno consecutivo. Nuovo dirigente scolastico, nuovi colleghi, nuovi alunni, nuovi genitori, nuove regole, nuova struttura, nuovo tutto. Con rare eccezioni. Per esempio, le difficoltà saranno sempre le stesse: classi numerose, orari di lavoro schizofrenici, risorse ridotte al minimo (o anche meno) e la disoccupazione che mi aspetta puntuale come un orologio svizzero, dopo 9 mesi di lavoro intenso. 
Entrare in classe per la prima volta è un momento delicato. I ragazzi ti scrutano, ti studiano, cercano di capire di che pasta sei fatta, se sei brava oppure no. Se sei meglio o peggio di quella/o che c'era l'anno scorso. Tu cerchi di studiare loro che però sono tanti, troppi, per farti immediatamente un'idea della classe. Spesso c'è chi passa direttamente alla provocazione per vedere come reagisci, per capire fin dove potrà spingersi. E, comunque, quella prima volta è importante, fondamentale. Lì si mettono le basi per il rapporto che si costruirà in seguito, giorno per giorno.
Io sono abbastanza brava a imparare subito i loro nomi. Non i cognomi. Quelli non m'interessano, li imparo dopo con calma. Alcuni colleghi mi dicono che sbaglio, che dovrei chiamare gli alunni per cognome perché così si mantengono le distanze, un modo spiccio per definire meglio i ruoli, insomma. Io, però, preferisco chiamare i ragazzi per nome. Non m'interessa mantenere le distanze. Non credo che facciano bene alla didattica e neanche alla relazione con la classe. I ruoli, il mio e il loro, cerco di definirli in altro modo. Ma, certo, è il mio punto di vista, questo. È il mio modo di essere.
Così quest'anno, probabilmente, dovrò mandare a memoria altri 150 nomi da assegnare ad altrettanti volti mentre i nomi e i volti dei miei alunni degli anni scorsi stanno ancora lì, nella testa, a fissarmi vividi e sorridenti. Mi mancheranno. Nonostante la fatica, nonostante le difficoltà, nonostante le incomprensioni, nonostante i musi lunghi e i brutti voti delle giornate no. Perché sono i loro sorrisi che continuo a ricordare più di ogni altra cosa, le volte che mi hanno fatto ridere, che mi hanno insegnato qualcosa, le loro anime giovani, la loro vitalità.
Insegnare non è facile. Soprattutto oggi. Però è la cosa che so fare meglio. E gli unici ai quali devo davvero dimostrarlo ogni volta sono seduti tra i banchi, in una classe, il più delle volte scalcinata, non in Viale Trastevere 76 a Roma. A quei signori lì l'ho già dimostrato e non ho intenzione di sprecare altro tempo ed energia per dimostrarlo un'altra volta.


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