sabato 26 novembre 2011

Venerdì mattina

Stamattina sono molto stanca. 
Le sei ore di sonno della notte scorsa non mi sono bastate.
E' venerdì e questo venerdì mi aspetta una giornata parecchio pesante. Questa consapevolezza amplifica la sensazione di stanchezza. Eppure, dentro, sento qualcosa che pulsa come un'energia compressa che ha  bisogno di essere liberata. Ascolto la mia musica con l'iPod e quello che vorrei fare è mettermi a ballare, qui, in treno.
Invece resto seduta, guardo fuori dal finestrino il paesaggio che si sveglia e inseguo con la mente vie di fuga; apro brecce liberatorie nel muro della quotidianità.
Odio le routine. Dopo un po' le sequenze ripetute di gesti e situazioni mi vengono a noia, mi provocano fastidio. Persino spostarmi ogni volta sul binario per prendere il treno quando la campana ne annuncia l'arrivo mi procura un leggero senso di frustrazione. 
Le abitudini mi fanno sentire in trappola. C'è gente che le trova rassicuranti; una cornice di certezze nel marasma dell'incerto. Io, invece, le trovo insopportabili. Le abitudini mi avviliscono come una sconfitta.

*

Riesco a ritagliarmi una pausa. Faccio un salto in libreria. Vedo Terracarne di Franco Arminio. Lo prendo, lo sfoglio, leggo la prima pagina, leggo frasi a caso da altre pagine a caso. Lo compro. 
In treno, al ritorno, comincio a leggerlo. Pagina 33. "Il paese in cui vivi è una prigione da cui puoi evadere quando vuoi. Va bene qualsiasi posto, questa è la scoperta. Va bene non farsi intonacare dall'abitudine. Andare fuori, verso l'esterno, questo è il segreto. Osservare il mondo come una forma di preghiera, un pregare appoggiati a un lampione, a un albero, sedersi per terra, entrare in un bar, guardare gente che parla, guardare quelli che stanno soli e quelli che fingono di stare vicini. Sentire che sei altrove e che puoi tornare a casa quando vuoi. Non è la chiave della felicità, ma almeno apri una breccia nel muro delle ore." 
Certe coincidenze sono belle come un sorriso.

PS: Grazie a Paola, la mitica Paola, che, qualche tempo fa, mi ha presentato questo signore di nome Franco Arminio.



venerdì 18 novembre 2011

Un'altra possibilità

Mi avevano promesso che non si sarebbero distratti, che non avrebbero disturbato la lezione se li avessi lasciati sedere vicini. Ero convinta che non ci sarebbero riusciti ma ho voluto dar loro, comunque, una possibilità. La possibilità di smentirmi, di dimostrarmi che sanno essere responsabili, che non sono più dei bambini. 
L'hanno sprecata, come accade quasi sempre in questi casi. Hanno cominciato a chiacchierare e ridacchiare dietro i leggii azzurri che la scuola ha dato loro in dotazione. Per la postura corretta, è la motivazione. In realtà, i ragazzi sono così impegnati a nascondersi dietro quello scudo plastificato, contorcendosi in posizioni assurde, che trovo che fosse sinceramente meglio prima. Per non parlare del fatto che i banchi sono troppo piccoli per contenere leggio e materiale didattico e, prima o poi, qualcosa finisce per cadere a terra con gran fracasso, mandando in frantumi il sempre precario stato di concentrazione della classe.
Comunque, i due ragazzetti hanno cominciato a ridacchiare complici. Piano, all'inizio; una volta ogni tanto. 
Non appena incrociavano il mio sguardo di disapprovazione, smettevano e tornavano seri. Poi, in un momento in cui l'attenzione generale si era un po' allentata, li ho visti ridere liberamente. Non si erano nemmeno accorti che mi ero messa in piedi e che li stavo fissando severa. 
E, all'improvviso, mentre stavo per alzare la voce e rimproverarli, mi sono ritrovata con la mente e le emozioni dall'altro lato della cattedra; mi sono risentita ragazzina dietro i banchi di scuola. Ho provato come un fremito di allegria. M'è venuta voglia di ridere insieme a loro, di scomparire in un groviglio di sguardi d'intesa e di battute stupide. Mi sono sentita stranamente leggera e ho contenuto un sorriso. 
Poi mi sono riseduta dietro la cattedra senza dire niente.

lunedì 7 novembre 2011

40

Ritorno.
So già che sarà diversa. Cambia in fretta, lei. Ma, in fondo, la riconoscerò sempre per quella che è: l'unico posto dove tornerei a vivere; l'unico luogo, oltre a quello in cui sono nata, dove, finora, sono riuscita a sentirmi a casa; l'unica città che mi ha fatto dimenticare il mio anelito costante all'altrove.
Il tragitto in metro da Heathrow al centro è una zaffata di ricordi disordinati: i rientri solitari dalle vacanze, il percorso eccitato per andare a prendere qualcuno e quello triste e umido dopo gli addii, il ragazzo che avevo notato durante uno di quei rientri e che rividi casualmente in un organic food shop diversi giorni dopo, gli odori, il suono della lingua, lo scenario oltre i finestrini sporchi quando il treno riemerge in superficie, i colori macchiati di grigio, le razze di mezzo mondo in un vagone della metropolitana. Ed è come essere stata via solo per pochi giorni. Ogni volta così.

Le giornate scorrono via veloci tra le strade piene di vita e di richiami. 
E' come se...
C'è una porta. Al di là della porta c'è questa massa enorme ed informe che cerca di passarci attraverso ma la porta è troppo stretta e la massa resta intrappolata nella cornice della porta. Si agita, ribolle, si gonfia sempre più e non riesce a passare mai. Ecco. Le sensazioni si sono accumulate come una massa informe dietro gli occhi, in fondo alla gola, sotto la pelle. Blood makes noise canta Suzanne Vega e la tranquillità della superficie è solo dovuta all'incapacità di esprimere il tumulto. 
A tratti mi perdo dietro l'obiettivo della mia macchina fotografica. M'incantano l'imperscrutabilità delle vite estranee che mi passano accanto, la casuale e momentanea sovrapposizione di geometrie urbane, la varietà di scenari che si susseguono senza fine. Dimentico il tempo che scorre, dimentico la mia presenza fisica per inseguire un richiamo del sangue. 
Poi ritorno.
Ritorno di qua.
E non vorrei.