venerdì 25 aprile 2014

Di un libro che mi ha chiamato

Vi è mai capitato di avere l'impressione che un libro vi chiami, che faccia in modo di essere trovato da voi, perché sa, il libro, che avete bisogno e voglia di lui, della sua storia?
A me capita. Ogni tanto capita.
Ed è capitato ancora. Due giorni fa. 
Ero a Roma. Ero stata a pranzo con una persona deliziosa che incontravo per la prima volta. Una persona con la quale ho parlato piacevolmente di libri e di scrittura e che mi ha raccontato storie affascinanti, di quelle che mi piacciono tanto.
Dopo pranzo avevo in programma la mostra dedicata a Frida Kahlo. Questa bella persona mi ha dato un passaggio fino a Piazza Esedra. Sono scesa dall'auto, ci siamo salutati e, prima di procedere per la mostra, sono entrata alla Feltrinelli che sta là, per cercare un taccuino nuovo da sostituire a quello che mi stava finendo. 
L'ho trovato abbastanza presto. Ero sul punto di andare alla cassa per pagare, quando una voce nella testa mi ha detto: "Ma perché non dai un'occhiata ai libri? È tanto che non fai un giro in una libreria ben fornita..." E un'altra voce ha risposto: "Ma tanto hai pochi soldi e hai già tanti libri a casa che aspettano ancora di essere letti. Non perdere tempo." Ma la voce di prima insisteva: "E chi ha detto che devi per forza comprare? Guardi e basta. Magari ti appunti qualche titolo per il futuro." "Giusto!", sono intervenuta io. E mi sono messa a passeggiare tra tavoli e scaffali mentre l'altra voce mi rimproverava: "Ma lo sai come sei, no? Ti appunti qualche titolo, un accidente! Finirai per comprartene uno. Anche più di uno. Non saprai resistere!" 
L'ho ignorata, questa voce fastidiosa, è ho lasciato che gli occhi accarezzassero le copertine dei libri con un piacere che avevo dimenticato. 
Avevo notato subito alcuni scaffali sul fondo dei locali della libreria, sulla parete opposta alla zona dove mi trovavo io. Sopra c'era scritto, "Scelti per voi". Il mio primo istinto è stato quello di andare là ma, per farlo, avrei dovuto percorrere tutto il piano della libreria, ignorando i libri che c'erano tra me e la selezione "scelta per me". Non ce la potevo fare ad andare lì direttamente (a ognuno le sue piccole psicosi). Così mi sono costretta a passare in rassegna tutti i tavoli che si trovavano sul percorso tra me e il fondo del locale ma non c'era nessun libro che riuscisse a catturare la mia attenzione. A un certo punto, mi sono anche un po' rattristata per questa mancanza di entusiasmo. In genere, non riesco a trattenermi dall'afferrare un libro dopo l'altro, pensando "Lo voglio!" Invece, niente. I piedi non esitavano e lo sguardo neppure. Volevano andare avanti. Allora ho allungato il passo e ho raggiunto la parete di fondo. 
E mi sono calmata. Lo sguardo è diventato attento, concentrato, i piedi immobili di fronte al muro. Ho passato in rassegna tutti i libri, dall'alto verso il basso. Un paio di titoli (e di copertine) hanno catturato subito il mio interesse. Uno me lo sono appuntato (visto, voce fastidiosa?). L'altro libro l'ho tenuto parecchio tempo in mano. Non ho letto subito la quarta di copertina. Autore, titolo e immagine frontale mi avevano, da soli, uncinato il desiderio. L'ho sfogliato. Ho letto l'epigrafe. 
L'unico vero possesso dell'uomo è nelle cose che ha perduto. 
Franz Werfel
Ho fatto frullare le pagine del libro inalando il profumo della carta e inchiostro.
Ho dato una scorsa rapida alla quarta di copertina. 
La perfetta storia d'amore di due persone che si sfiorano senza incontrarsi mai.
Si raccontava di storie che scorrono parallele, senza incontrarsi. Si raccontava di nostalgia, rimpianto, desiderio, speranza, infelicità, solitudine.
"Dai, segnati pure questo e andiamocene.", ha detto la voce fastidiosa.
"Prezzo € 8,00. Non è tanto. E poi sono solo 88 pagine. Lo finisco in meno di un giorno.", l'ho ignorata io.
"Ma daaaaaaaaaai! Ne stai già leggendo un altro. E ne hai cominciati altri cinque prima di questo, senza finirli. Lascialo!"
L'ho preso.

Me lo sono portato dietro alla mostra di Frida Kahlo (ovviamente). Ogni tanto lo tiravo fuori e l'accarezzavo e facevo frullare le pagine. Le parole lì dentro un richiamo irresistibile.
E così fino a ieri sera, quando sono tornata a casa. Ho svuotato il mio bagaglio, ho finito di cenare e mi sono messa a leggere. Ad alta voce. Ho letto per me. 
Quando è sopraggiunto il sonno, ho smesso. Stamattina ho ripreso. Sempre ad alta voce. E ho finito.

Certi libri ci chiamano. Sono stati scritti per noi. Una persona che non conosco, Diego De Silva, ha scritto una storia, Mancarsi, che parla di me, parla con me e adesso è un pezzo di me.

"Pensa che con lui potrebbe essere, in certa misura, addirittura felice, se facesse l'elenco delle sue qualità ed evitasse di chiedersi come mai i conti non tornano. Con un po' d'esercizio, potrebbe innamorarsi. Farsi bastare la sua gentilezza, il suo garbo, i suoi anni di meno, il suo amore già cronico, l'incanto con cui la guarda e quel tanto di scontato che promette un futuro semplice e senza sommovimenti particolari, al quale pure aspira.
La vita, insomma, continua a farle la stessa proposta. A presentarle gli stessi uomini. Non è vero che la vita ti sorprende. Quello che fa, soprattutto, è confermarti al tuo posto. Farti sentire dov'eri. Ribadire la felicità che ti è concessa.
Una sola volta ha fatto eccezione. Portandole fin dentro casa, molto tempo prima, l'unico uomo per cui avrebbe lasciato suo marito, un uomo che le prometteva (e avrebbe mantenuto) quella spaventosa felicità a cui ha consapevolmente rinunciato e che oggi testardamente rivuole.
È stata brava, Irene - ma che brava, è stata - a fermarsi prima del tempo. È tutto lì il segreto, recidere sul più bello, non è così? Essere quanto più drastici si riesce, e poi lavorare di logica per assolversi a solitudine ritrovata. Razionalizzare, si diceva una volta e forse si dice ancora. E quanto ha razionalizzato, Irene. Che cosa non s'è raccontata per convincersi.
(...)
È stata brava, Irene - ma che brava, è stata - a confezionarsi il trattatello moralista. La requisitoria ha funzionato. Si è convinta.
(...)
Non sto recitando, aveva detto lui, o prendiamo questa decisione adesso o finisce tutto e per sempre.
E lei in quel momento aveva provato sollievo, perché sapeva che era un uomo di parola, e che l'avrebbe mantenuta.
E così ha fatto.
Brava, Irene.
Ma che brava sei stata."



venerdì 4 aprile 2014

Di una volta che ero la Madonna

Nel senso che interpretavo la parte della Madonna in una rappresentazione teatrale alle elementari. 
Non ricordo l'occasione. Si trattava, però, con ogni probabilità, di una ricorrenza religiosa perché i personaggi erano tutti biblici. Forse era il periodo di Pasqua.
La rappresentazione si tenne nella Chiesa della Madonna della Greca. 
Davanti all'altare era stato montato un piccolo palco. 
Gli attori (io e i miei compagni delle elementari scelti per la recita) avremmo atteso il nostro turno per apparire sul palco nelle piccole navate laterali. Ci saremmo succeduti, uno dopo l'altro, in un ordine preciso e solo in alcune scene ci sarebbero stati più personaggi insieme sul palco. Forse nel finale. Non ricordo più bene. 
I nostri costumi erano arrangiati. Io indossavo una tunica beige realizzata con il tessuto usato per le fodere e un'altra tunica rosso scuro, con il buco per farci passare la testa un po' più stretto, bloccata sulla fronte a mo' di velo.
Avevamo fatto le prove nel pomeriggio. 
Poi arrivò la sera. 
Io ero terribilmente emozionata. Ero la prima a comparire sul palco dopo la presentazione del nostro maestro.
Mentre il maestro parlava, ripetevo mentalmente la mia parte. In quel momento, le luci nella chiesa erano tutte accese. Il maestro parlava ad un microfono posizionato ai piedi del palco, davanti alla pedana dove si sarebbe svolta la rappresentazione. Io non lo vedevo. Non vedevo il pubblico. 
Poi il maestro terminò di parlare. Toccava a me. Sbucai sul palco nello stesso momento in cui spensero tutte le luci, ad eccezione di un faro che illuminava il palco. 
Le sagome della gente seduta in silenzio e al buio che aspettava mi fece salire il cuore in gola. Quanti erano? Esitai un attimo. Vidi il microfono. Pensai di dover parlare da lì. Come mi avrebbero sentito, se no, tutte quelle persone? Mi avvicinai al bordo del palco e scesi per raggiungere il microfono, senza far caso al fatto che quella zona, quella dove si trovava il microfono, fosse al buio. Però la mia tunica era troppo stretta e il movimento fu goffo, incerto. Sentii un leggero strappo al tessuto. Senza scompormi, raggiunsi il microfono e cominciai a declamare la mia parte con convinzione. Peccato che il microfono fosse spento. 
Forse me lo sono solo immaginato ma, da qualche parte, ho sentito il mio maestro ridacchiare. O forse era qualcuno tra il pubblico che ridacchiava.
Ok, avevo sbagliato. Non dovevo scendere dal palco e non dovevo usare il microfono. Ma non mi persi d'animo. Le prime file del pubblico erano a due passi da me. Mi fissavano. Alzai la voce e terminai la mia parte con determinazione. Poi mi girai con molta dignità e, tirando su la tunica, risalii sul palco e mi dileguai nella piccola navata laterale. 
Sipario.