lunedì 24 settembre 2012

Della roulette russa


Guardo le Disponibilità per incarico a tempo determinato A.S. 2012/13 e loro guardano me. Canosa, Andria, Bisceglie, Terlizzi, Molfetta, Gravina, Poggiorsini, Bitonto, Bari, Modugno, Binetto, Rutigliano, Monopoli, Gioia, Sammichele, Turi. Il mio prossimo anno scolastico sta lì in mezzo. O, almeno, dovrebbe. Sperando che, quando sarà il mio turno, mi resti qualche sede "praticabile". Alcune sono semplicemente troppo lontane perché possa accettare. Sarò la settima a scegliere. Diciotto sedi disponibili per una cinquantina di convocati. La consueta roulette russa sta per avere inizio. Tra meno di 24 ore sarà tutto finito. La mattinata si consuma nell'attesa, seduta in mezzo a decine di altri docenti precari di altre classi di concorso, con i nervi contorti per l'ansia mentre quelli che mi precedono fanno le loro scelte e io prego mentalmente che non prendano le sedi che prenderei io. Ma, in genere, sono preghiere che restano inascoltate. 
Ogni volta, quando chiamano il mio nome, sento il cuore che mi salta in gola. Di solito, cominciano a tremarmi le mani. Mi siedo davanti all'incaricato dell'Ufficio Scolastico Provinciale ed è come se mi mettessero in mano un revolver carico. Poi scelgo. Premo il grilletto. A occhi chiusi. Senza fiato. Senza più saliva in bocca. L'incaricato registra la mia scelta e mi dà il foglio con la proposta di assunzione che dovrò consegnare alla segreteria della scuola che redigerà il contratto effettivo. La maggior parte delle volte non conosco la scuola che ho scelto (o le scuole, ché sono state quasi sempre almeno due fino a oggi). È un salto nel vuoto. L'unica certezza è la distanza che dovrò coprire ogni giorno per arrivarci. Anzi, no. Ce n'è un'altra: la certezza di stare per ricominciare tutto da capo. Quest'anno, per il decimo anno consecutivo. Nuovo dirigente scolastico, nuovi colleghi, nuovi alunni, nuovi genitori, nuove regole, nuova struttura, nuovo tutto. Con rare eccezioni. Per esempio, le difficoltà saranno sempre le stesse: classi numerose, orari di lavoro schizofrenici, risorse ridotte al minimo (o anche meno) e la disoccupazione che mi aspetta puntuale come un orologio svizzero, dopo 9 mesi di lavoro intenso. 
Entrare in classe per la prima volta è un momento delicato. I ragazzi ti scrutano, ti studiano, cercano di capire di che pasta sei fatta, se sei brava oppure no. Se sei meglio o peggio di quella/o che c'era l'anno scorso. Tu cerchi di studiare loro che però sono tanti, troppi, per farti immediatamente un'idea della classe. Spesso c'è chi passa direttamente alla provocazione per vedere come reagisci, per capire fin dove potrà spingersi. E, comunque, quella prima volta è importante, fondamentale. Lì si mettono le basi per il rapporto che si costruirà in seguito, giorno per giorno.
Io sono abbastanza brava a imparare subito i loro nomi. Non i cognomi. Quelli non m'interessano, li imparo dopo con calma. Alcuni colleghi mi dicono che sbaglio, che dovrei chiamare gli alunni per cognome perché così si mantengono le distanze, un modo spiccio per definire meglio i ruoli, insomma. Io, però, preferisco chiamare i ragazzi per nome. Non m'interessa mantenere le distanze. Non credo che facciano bene alla didattica e neanche alla relazione con la classe. I ruoli, il mio e il loro, cerco di definirli in altro modo. Ma, certo, è il mio punto di vista, questo. È il mio modo di essere.
Così quest'anno, probabilmente, dovrò mandare a memoria altri 150 nomi da assegnare ad altrettanti volti mentre i nomi e i volti dei miei alunni degli anni scorsi stanno ancora lì, nella testa, a fissarmi vividi e sorridenti. Mi mancheranno. Nonostante la fatica, nonostante le difficoltà, nonostante le incomprensioni, nonostante i musi lunghi e i brutti voti delle giornate no. Perché sono i loro sorrisi che continuo a ricordare più di ogni altra cosa, le volte che mi hanno fatto ridere, che mi hanno insegnato qualcosa, le loro anime giovani, la loro vitalità.
Insegnare non è facile. Soprattutto oggi. Però è la cosa che so fare meglio. E gli unici ai quali devo davvero dimostrarlo ogni volta sono seduti tra i banchi, in una classe, il più delle volte scalcinata, non in Viale Trastevere 76 a Roma. A quei signori lì l'ho già dimostrato e non ho intenzione di sprecare altro tempo ed energia per dimostrarlo un'altra volta.


venerdì 21 settembre 2012

Dei consigli degli altri

Diversi anni fa, una persona (una molto diversa da me, una che non siamo d'accordo su quasi niente, una molto più anziana di me) mi ha detto: "Vattene da qui. Sei una ragazza in gamba. Qui sei sprecata. Vattene!" Io e la mia maledetta testardaggine! Io e il mio maledetto sentimentalismo! Io e la mia maledetta propensione a non voler seguire i consigli degli altri. Ogni tanto, ci potrei pure provare!


mercoledì 19 settembre 2012

Della prima puntata

Si era fermato in mezzo alla strada. Il percorso era in salita e decisamente faticoso ma i cartelli e le indicazioni puntavano tutti in quella direzione. Di fianco alla strada principale ce ne erano altre, tante piccole deviazioni tortuose, senza indicazioni e senza cartelli. Non sapeva dove portassero quelle strade e neppure se portassero davvero da qualche parte. Eppure, all'improvviso, si era fermato. Guardava la strada in salita davanti a sé. Era da tanto che camminava su quella strada e, per tutto il tempo, aveva continuato a salire e sudare e sbuffare e non l'aveva mai vista diventare più dolce, più piacevole. Si sedette su un sasso. La domanda che continuava ad agitargli i pensieri, da un po' di tempo, era sempre la stessa: "Sei sicuro che stai andando nella direzione giusta?" Il problema è che non riusciva più a rispondersi di sì. Aveva continuato comunque a camminare sulla stessa strada perché non gli sembrava saggio avventurarsi per altre vie sconosciute, nonostante alcune apparissero vagamente più allettanti di quella che stava percorrendo. Temeva di perdersi, d'incamminarsi per strade ancora più faticose di quella che aveva scelto. I passanti che incontrava lungo il cammino lo esortavano a continuare. Quando aveva provato a confidare i suoi dubbi a qualcuno, quello l'aveva guardato come se fosse impazzito. Ovvio che si dovesse continuare a seguire la strada principale! Bisognava stringere i denti e accettare i passaggi più o meno scomodi e affollati che ogni tanto si riuscivano a ottenere. Poi scendere e rimettersi a camminare. Prima o poi sarebbero arrivati a destinazione. E poi, gli dicevano, chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa quel che lascia, non sa quel che trova. Certo, rispondeva lui, ma potrebbe pure trovare qualcosa di meglio. Si trattava di correre un rischio, alla fine. Già, il rischio. Quanto era disposto a rischiare? In realtà, lui non era un tipo disposto a rischiare molto. Almeno, non lo aveva più fatto da quando aveva scelto d'imboccare quella strada. Ma forse, a pensarci bene, non era mai stato disposto a rischiare sul serio. Aveva sempre avuto paura di perdere quello di buono che era riuscito a ottenere o a costruirsi e aveva finito per limitare il rischio e ignorare il suo istinto o i suoi desideri. Li aveva frenati, messi a tacere o incanalati altrove. Pensava di essere un uomo equilibrato, ragionevole. Invece, adesso, all'improvviso, cominciava a pensare di essere semplicemente un vigliacco.
C'erano di quelli che avevano cambiato strada e sapeva che molti erano già arrivati a casa. Si era detto che erano sicuramente persone migliori di lui, persone in gamba, forti, capaci. Lui non era così. La sua mediocrità era un limite con il quale si confrontava ogni giorno e lo spingeva a non cambiare percorso. 
Seduto sul sasso, guardò la strada principale in salita. Diventava sempre più ripida, sempre più arida e desolata. Poi, guardò la strada che si apriva vicino al suo sasso. Era stretta. Si piegava subito in una curva e scompariva in una folla di alberi frondosi.
Rimase seduto a pensare per un bel pezzo.
(Fine prima puntata)

mercoledì 12 settembre 2012

Della sposa

Resto ad aspettare, affacciata al balcone come una vecchia comare. Voglio vederla.
È stato un caso, in verità. Ero in veranda per sfuggire ai soliti rumori spaccanervi e poter leggere più tranquillamente The Eyre Affair. Però, stamattina, c'era una concitazione particolare per strada, oltre al solito trambusto di mamme e papà che vengono a depositare i loro pargoli qui sotto, parcheggiando come capita e, a volte, senza neanche spegnere il motore dell'auto.
Così, ho scoperto che "c'era una sposa", la figlia di un vicino. Pian piano, davanti alla porta dell'appartamento a piano terra della sposa, ha cominciato a radunarsi gente dal look sbrilluccicoso. Le damigelle d'onore (due) indossavano abiti hollywoodiani verde smeraldo con fili di strass, le capigliature elaborate e i tacchi spropositati. Gli abiti dei lui presenti lucidi e neri come petrolio e un fiore bianco appuntato sulla giacca. Due macchinoni, tirati a nuovo e decorati con fiori e nastri di tulle, parcheggiati in maniera incurante del traffico che, in genere, passa sotto casa. Le coreografie de "Il giorno più bello" non possono tenere conto delle scarne necessità del quotidiano: la sposa deve uscire dalla porta di casa e trovare la carroz... ehm... l'auto pronta ad attenderla. 
Istintivamente, cerco lo sposo tra la gente presente. Che cretina, mi dico! Lui non c'è: l'aspetta in chiesa. È lì che i padri delle lei le consegnano ai lui, futuri capi-famiglia. È così che funziona nelle nostre società patriarcali.
Attraverso la porta aperta dell'appartamento, intravedo un tavolo di legno sul quale è stata sistemata un'enorme composizione floreale che lo occupa quasi per intero. Mi vengono in mente la bare chiuse, durante i funerali, con le corone di fiori posate sul coperchio di legno massiccio. Lo so, lo so. È un mio problema, questo. Continuo ad associare inconsciamente i matrimoni ai funerali e viceversa. Dico matrimonio invece di funerale e funerale invece di matrimonio. Sbaglio sempre. Non so che farci. 
Dopo un po', mi sento vagamente idiota a starmene appoggiata alla ringhiera del balcone a osservare quello che succede per strada. Mi accorgo che ci sono altre persone (tutte donne e un paio di bambini) affacciate agli altri balconi: aspettano anche loro che esca la sposa. Mi viene da ridere e ritorno al mio libro. Ma non riesco a concentrarmi. Cos'è questa curiosità esagerata per i matrimoni e, soprattutto, per la sposa? Ché, lo sappiamo bene, lo sposo ha il ruolo di attore non protagonista in questo show. La vera e unica protagonista indiscussa è lei: la sposa. Gli sguardi sono tutti per lei. Perché? Quando mi sono sposata, sapevo che sarebbe stato così: avrei avuto gli occhi di tutti addosso. E l'idea non mi piaceva per niente. Non volevo essere al centro dell'attenzione. Non mi piace essere al centro dell'attenzione. Mi mette a disagio (tranne a scuola, in classe. Lì mi piace, anzi, guai quando perdo l'attenzione di qualcuno!). Difatti, quando sono arrivata al giardino dove mi sono sposata e ho visto gli invitati che aspettavano tra le aiuole, sarei voluta sprofondare sotto terra. Che vergogna che ho provato in quel momento! Va be'... poi passa, per fortuna. Quando gli occhi hanno finito di spolparti, diventano di nuovo innocui e tu sei libera un'altra volta.
Giovane coppia - Efeso, Turchia - maggio 2007
Questa sono io, però. E mi rendo conto di essere abbastanza poco ortodossa per essere una femmina occidentale contemporanea dell'Italia del sud. Quando mi capita di partecipare a un matrimonio o di vederne casualmente uno per strada, provo una punta di ammirazione per la sicurezza disinvolta con la quale la sposa affronta il suo pubblico e si offre generosamente agli obiettivi di fotocamere e videocamere. In fondo, i matrimoni di oggi non sono altro che piccole messe in scena. Spettacoli organizzati fin nel più piccolo dettaglio. Si fa a gara a chi lo fa più bello, più originale, più raffinato, più elegante, più spiritoso, più lungo, più trasgressivo, più rock... Trovo che il livello di pacchianeria che si riesce a raggiungere con i matrimoni sia tra i più alti registrabili in qualsivoglia altro contesto. Diventano la fiera dell'eccesso. La gente si trasforma, si traveste da star del cinema o da puttana/magnaccia (a seconda dell'effetto finale). Alcuni, semplicemente, sono ridicoli. Ma perché? Cos'è questa frenesia da matrimonio? Cos'è questa smania di apparire, mostrarsi, agghindarsi, esagerare?
Mi riaffaccio al balcone. Eccola, sta uscendo! C'è il fotografo ufficiale che dirige la scena: "Fate spazio alla sposa!" (C'è sempre chi, per pochi attimi, spera di rubarle la scena e sorride con ostentazione.) "Facciamo salire la sposa in macchina?" Lo scintillio di una miriade di brillantini mi saluta dal basso. La sposa è al braccio del suo papà. Ha il velo, i guanti e anche lei è tutta sbrilluccicosa. E il vestito? Com'era il vestito?, recita la domanda di rito. Non so. Non sono restata a lungo a guardare. Mi è bastato avere la mia conferma. La sposa è bella, come tutte le spose. Intorno a lei lo spettacolo è appena cominciato. Tutto secondo copione. Tutto come deve essere. La trama è ovvia. L'attrice principale anche. D'altronde, che m'aspettavo?

giovedì 6 settembre 2012

Del paradiso

Sono le otto e un quarto. P. mi aveva dato appuntamento per le otto e mezza. Mi sono appena svegliata. Non ce la faccio. La chiamo. Lei mi dice che va bene se partiamo un po' più tardi e insiste che vada.
Va bene. Sono quasi le nove quando partiamo. Lei va al maneggio vicino al mare. Io vado semplicemente a mare. Mi lascia nei pressi di Lido Tavernese. 
"E se piove?" 
"Pazienza. Mi bagnerò."
"Potevo darti la macchina..."
"No, non mi va. Non ti preoccupare. Ci sentiamo dopo."
Ci salutiamo.
Arrivo sul mare. La linea di costa che mi accoglie è una striscia sottile di pietre e sassi. C'è un signore anziano seduto su una piccola sdraio che mi blocca il passaggio. Devo superarlo e poi percorrere un tratto con i piedi nell'acqua per raggiungere un lembo di sabbia calpestabile. Mi dirigo a sud. Il mare che bagna la riva è color fango. Forse nei giorni scorsi sarà stato mosso o forse è una conseguenza delle piogge di ieri. Più al largo, invece, è di un azzurro brillante che si staglia contro nubi bianche e spumose, la linea dell'orizzonte netta a indicare la rotondità del mondo. 
Cammino. Il sole mi costringe a strizzare gli occhi. In lontananza, davanti a me, vedo le sagome di tre persone che procedono nella mia stessa direzione. Sono molto distanti. Dietro di me, nessuno. L'uomo seduto sui sassi è scomparso dietro le dune di sabbia e le pieghe sinuose della costa. 
Cammino e c'è silenzio. A eccezione del jazz delle onde. 
Cammino e sono sola. 
Fa caldo. Mi fermo. Infilo le ciabatte di gomma in una tasca della borsa, mi sfilo i pantaloncini e la maglietta e li metto via. Riprendo a camminare.
I colori, oggi, sono brillanti. L'aria è tersa. Vorrei avere la macchina fotografica con me ma l'ho lasciata a casa. A un certo punto, poggio la borsa sulla sabbia e corro su per una duna. Voglio capire dove mi trovo. Oltre la duna c'è la zona umida e uno stagno con degli uccelli che ci nuotano dentro. Più in là c'è la statale. Non ho idea di dove sia arrivata. Ritorno sulla spiaggia e riprendo a camminare.
Guardo l'orologio. Sto camminando da oltre venti minuti e ho incontrato solo una donna che parlava al cellulare nei pressi di un lido. 
L'acqua che bagna la riva diventa sempre più limpida e io ho sempre più caldo. È arrivato il momento di fermarsi. Lascio cadere la borsa sulla sabbia ed entro in mare. Mi tuffo. È bellissimo qui. Mi piace. E non c'è nessuno. Molto più avanti vedo qualche ombrellone e poche sagome scure di altri bagnanti.
Esco dall'acqua, prendo la maschera e ritorno a tuffarmi. Trasparenza infinita che si tinge d'azzurro. Sott'acqua, la sabbia bianca imita le forme delle onde del mare. Un banco di piccole marmore mi segue dappertutto e mi fa il solletico ai piedi quando li poggio sul fondo sabbioso. 
Se mi fermo a guardare l'orizzonte, vedo solo diverse sfumature di blu, azzurro, verde, dal cielo al mare, a eccezione dei cumuli bianchi dall'apparenza soffice, poggiati sulla linea dell'orizzonte. Se mi volto verso la costa vedo le dune di sabbia, il canneto e la mia borsa. Ogni tanto si sente il canto di un uccello che s'aggiunge a quello del mare. Poi, basta. Poi, nessuno.
Questa solitudine silenziosa mi ha ingoiata viva e adesso io sono mare, sabbia, sole, aria. Finalmente, non penso a nulla. La mente è vuota. Come l'orizzonte. 
Esco dall'acqua e mi stendo al sole. Respiro. Mi slaccio il pezzo di sopra del mio costume e lo sfilo via. Respiro.
Quando, più tardi, riapro gli occhi e mi metto a sedere, mi accorgo che c'è una coppia che si è fermata non troppo lontana da me. Per fortuna sono due persone silenziose, riservate. Lei indossa un solo pezzo, come me. 
Torno in acqua. 
È incredibile quanto un pezzetto di tessuto sintetico incida profondamente sul senso di libertà che si prova a farsi scivolare addosso la carezza sensuale del mare. Mi allontano dalla costa e tiro via anche il secondo pezzo. Metto la testa sott'acqua. Il paradiso.


sabato 1 settembre 2012

Della beffa - Lettera aperta al Ministro Profumo


All’inizio del nostro percorso di studi universitari noi non sapevamo ancora di voler fare le insegnanti d’inglese. Semplicemente, con la nostra formazione e le competenze linguistiche che abbiamo maturato nel tempo, in Italia e all’estero, a un certo punto, c’è sembrata la scelta più ovvia. Niente più concorsoni per noi, però. L’ultimo risale al 1999. Dieci anni fa, quindi, l’unica strada percorribile per l’abilitazione all’insegnamento era la Scuola di Specializzazione all’Insegnamento Secondario, la SSIS, ovvero la naturale evoluzione dei concorsi, voluta dai precedenti governi per svecchiare le consuete procedure di formazione e assunzione nella scuola (leggi, il concorso), in ottemperanza a quanto stabilito dagli accordi di Lisbona del 1989, validi per tutta l’Unione Europea. Due anni di corsi universitari, puntellati di lezioni ed esami, 300 ore di tirocinio, relazione finale ed esami, scritti e orali. Due anni pagati profumatamente alle università che, per ben 9 cicli, hanno trovato nella SSIS la gallina dalle uova d’oro. Già allora si diceva che i posti disponibili per i corsi erano in relazione alla reale necessità della scuola italiana. Evidentemente si affermava il falso se, dieci anni dopo, noi siamo ancora qui a ingrossare le fila del precariato scolastico. Ma siamo abilitate, con un esame che ha, è bene ricordarlo, “ai sensi del decreto legge 28 agosto 2000 n. 240 […] valore di prova concorsuale ai fini dell’inserimento nelle graduatorie permanenti [oggi, GaE]”.
Abbiamo cominciato a lavorare con supplenze temporanee o incarichi a tempo determinato (i contratti annuali, per intenderci, di quelli che cominci a lavorare a settembre e alla fine di giugno non vai in vacanza, come crede il Ministro Profumo, ma vai a fare la disoccupata per un paio di mesi). Abbiamo scoperto che il lavoro che abbiamo scelto di fare ci piace e ci riesce anche discretamente bene. Non siamo noi a dirlo. Ce lo dicono le famiglie e gli studenti che sperano di vederci tornare l’anno scolastico successivo e invece ci vedono migrare in un’altra scuola per soddisfare un meccanismo di reclutamento così complesso e farraginoso che spiegare come funziona a uno che nella scuola c’ha messo piede solo da studente è un’impresa decisamente ardua.
Dieci anni così. Dieci anni ad aspettare di poter svolgere il nostro lavoro con una certa continuità didattica (un concetto che non sembra avere più nessun peso nella scuola-azienda del futuro) e con la tanto agognata stabilità contrattuale. Dieci anni che ci hanno fatto crescere professionalmente e umanamente, nonostante le condizioni di lavoro spesso disagevoli. Dieci anni durante i quali avremmo voluto fare di più, dare di più, se solo ce lo avessero concesso. Dieci anni a scalare una graduatoria che, nel corso del tempo, ha subìto diversi stravolgimenti dovuti alle rampanti intuizioni di ministri spavaldi e spesso incompetenti, mischiando ogni volta le carte, facendo saltare diritti acquisiti o, almeno, condizioni che sembravano consolidate. Se insegnassimo in un altro qualsiasi paese europeo, sarebbe bastato essere impiegate con contratto a tempo determinato nella scuola per 3 anni consecutivi per passare di diritto a lavorarci a tempo indeterminato. L’Italia, però, da questo punto di vista, preferisce non uniformarsi all’Unione Europea.
E arriviamo al presente. È da qualche giorno che TG e giornali sbandierano con clamore ed entusiasmo l’imminente concorso per l’immissione in ruolo di 11.892 insegnanti nella scuola pubblica. La panacea al male del precariato, l’ingresso di docenti “giovani, preparati e meritevoli” nella scuola italiana. E già questo ci fa un po’ arrabbiare. Anzi, ci fa molto arrabbiare. Perché, automaticamente, noi inseriti nelle GaE (Graduatorie a Esaurimento), diventiamo, per opposizione, “vecchi, incompetenti e non meritevoli”.
Ma andiamo oltre.
Forse non tutti sanno che questi giovani fenomenali di cui il Ministro Profumo tanto parla, non potranno partecipare affatto al concorso in questione. Infatti, stando alle norme in vigore, i requisiti per l’accesso al concorso sono i seguenti:
• Possono partecipare ai concorsi coloro che siano in possesso dell'abilitazione (Art. 1) – [conseguita, quindi, grazie ad un corso SSIS o all’ultimo concorso del ’99, cioè ottenuta tramite prova concorsuale.]
• Possono partecipare anche docenti in possesso del solo titolo di laurea, purché conseguito entro il 2001/02 per corsi quadriennali, 2002/03 per i corsi quinquennali e 2003/04 per i corsi esaennali – [si tratta, quindi, di candidati che, facendo un po’ di calcoli, non avranno sicuramente meno di 30 anni.]
• Possono partecipare anche i soli diplomati (ISEF, Conservatori, Accademie) purché i diplomi siano conseguiti entro l'anno in cui si conclude il periodo prescritto dal relativo piano di studi a decorrere dall'anno accademico 1998/99 (DI 460/98 Art. 2)-[ idem come al punto precedente.]
• Possono partecipare anche i docenti non in possesso dell'abilitazione, qualora non ci fosse un numero sufficiente di abilitati (3 volte i posti disponibili) (art. 4) – [ipotesi fantascientifica per la maggior parte delle classi di insegnamento.]
Detto questo, che sembrerebbe già sufficiente a chiarire la beffa, si aggiunga che le famigerate Graduatorie a Esaurimento sono piene zeppe di insegnanti abilitati, plurititolati, già valutati e con diversi anni di esperienza nella scuola pubblica alle spalle e, quindi, proprio per questo, non più tanto giovani (anagraficamente!). Nella graduatoria della nostra classe di concorso, nella nostra sola provincia di appartenenza, per esempio, ci sono oltre 300 persone regolarmente abilitate all’insegnamento per una dozzina di posti disponibili ogni anno.
A questo punto, le contraddizioni sono evidenti: i “giovani” non possono accedere al concorso e quelli invecchiati nelle GaE non possono essere stabilizzati e, soprattutto, i cosiddetti precari storici (alla fine, i principali destinatari di questo concorso) sono già abilitati e idonei all’insegnamento. Perché dovrebbero sostenere una prova che hanno già sostenuto e superato, prova peraltro più complessa e articolata di questo “innovativo” concorso?
E non finisce qua. Quest’anno saranno avviati anche i TFA (Tirocinio Formativo Attivo), ossia delle SSIS in miniatura che, nel giro di un anno (anziché i due previsti dalle SSIS), abiliteranno altri insegnanti.
Ma dove andranno tutti questi insegnanti? Che ce ne facciamo, Ministro Profumo, di tutti questi insegnanti: giovani, vecchi, abilitati, laureati, specializzati, perfezionati, entusiasti, amareggiati, meritevoli, poco meritevoli, competenti, incapaci, preparati, poliglotti, tecnologizzati, informatizzati, intraprendenti e, soprattutto, esasperati? Dove li mettiamo, ché i posti disponibili nella scuola sono così pochi che ci sono persino insegnanti in esubero utilizzati su classi di concorso differenti dalla propria o mandati a ricoprire incarichi amministrativi? Dove li mandiamo, ché i docenti sicuri di andare in pensione in questi anni sono stati “trattenuti” in servizio e non hanno più né la voglia, né la forza di restare là? Dove li facciamo lavorare questi fantastici illusi, ché le classi diminuiscono mentre il numero di alunni per classe aumenta ogni anno (in spregio alla qualità dell’insegnamento)?
Questo sarà il nostro decimo anno di precariato e il nostro futuro professionale è sempre più incerto, in barba a quella posizione ai “vertici della classifica” che siamo riuscite a guadagnare in questi anni. Il suo brillante concorso, noi, Signor Ministro, non lo faremo, ma siamo pronte, come ogni anno, a ricominciare da capo, in un’altra scuola, con altri studenti e altri colleghi, a dover dimostrare di nuovo quanto valiamo e quello di cui siamo capaci, noi vecchie e, perciò, incompetenti e poco meritevoli. Non è semplice e non è bello. Alla lunga, è un processo logorante. Eppure speriamo di riuscire a entrare in classe anche quest’anno. Ché la scuola vera finora l’abbiamo fatta funzionare noi, nonostante le vostre porcherie!

Graziana Giotta (40 anni)
Maria Mastropierro (34 anni)
Docenti precarie di lingua inglese dal 2003