mercoledì 19 dicembre 2012

Dell'intangibile

Mi circonda un silenzio che non è silenzio perché intorno c'è un rumore diffuso. Ma lo percepisco come silenzio. Più che altro, è una distanza, uno spazio delimitato da un'assenza di relazioni. Nessuno mi conosce. Io non conosco nessuno. Non ho motivo di rivolgere la parola a nessuno. Nessuno ha motivo di rivolgere la parola a me. Mi sento invisibile. L'invisibilità dell'anonimato in un luogo estraneo. L'invisibilità dell'ordinario. 
Così nascosta, osservo indisturbata. Sembro una passante qualunque che cammina immersa nei suoi pensieri, presa dai suoi impegni. Invece io non penso a niente, non ho impegni, non ho fretta. Semplicemente, osservo.

Prima di arrivare a Roma, nello shuttle dall'aeroporto, la condizione ideale.
Crepuscolo. Poi, buio. Le luci nel bus spente. Roma che scorre oltre il finestrino come un film senza voce. Ma non muto. Le voci degli altri passeggeri sono sussurri soffici, riservati. Le ombre mi avvolgono. Scorro insieme al paesaggio fuori. Senza volontà, senza necessità di prendere decisioni, fosse anche solo quella di muovere i miei passi in una direzione precisa. Provo a sentire le vite degli altri. Immagino. Invento. Sento. Il corpo abbandonato in un libero fluire. È una sensazione meravigliosa, quasi commovente.
Entrare in contatto con l'intangibile. Questo è.

*

Per pochi giorni la linea dell'orizzonte s'è spostata di nuovo oltre il limite ordinario del possibile. Lo spazio intorno si è riempito, di nuovo, di richiami e affascinanti alternative all'apparente univocità del quotidiano. I fantasmi del passato si mescolano ai sorrisi e agli occhi di amici e passanti. Sono gonfia di vita. Mi moltiplico, il mio contorno si sfalda, i pensieri si rovesciano nell'aria, la mente respira profondamente. 
E m'innamoro. Un'altra volta. 
Che poi è la condizione essenziale del viaggiare: mettere da parte la paura e lasciarsi travolgere dall'amore.

Santa Maria in Trastevere, Roma

giovedì 13 dicembre 2012

Della strada più lunga

Ci sono almeno due strade che posso percorrere in auto per andare al lavoro: una è più lunga, più tortuosa e più lenta; l'altra è più corta, lineare e rapida. Le ho provate entrambe e, alla fine, nonostante tutti mi abbiano più volte ripetuto che la seconda è meglio, io continuo a prendere la prima. Perché? Perché è più bella. E meno trafficata. Ma, soprattutto, è più bella. Devo uscire un po' prima di casa per evitare di accumulare ritardo ma... che meraviglia quel tratto fino a Laureto! Le trasformazioni della campagna di stagione in stagione sono sempre straordinarie, nonostante si ripetano uguali e costanti ogni anno, ogni ciclo, senza interruzione.
Oggi, poi, dopo la gelata della notte, con il sole che faceva splendere la brina con la sua luce morbida del primo mattino, sembrava un paesaggio da fiaba. Procedevo piano a causa del ghiaccio e di un paio di automobilisti decisamente più cauti di me che mi stavano davanti. Si stava facendo tardi ma i campi imbiancati, gli alberi, i muretti a secco, i trulli, il cielo azzurro, il ghiaccio luminoso mi cantavano tutti insieme: "Ma che t'importa?" E io rispondevo con un sorriso: "Niente. Non m'importa niente." E poi sono arrivata sulla strada principale e, dopo un paio di curve, lontano, all'orizzonte, il mare blu blu blu. 

Dico, ma, voi, vi rendete conto di quant'è bello il mondo?


venerdì 7 dicembre 2012

Della necessità di ritrovare l'equilibrio

Non è un bel periodo. Sono inquieta. E arrabbiata. Chiudo la pagina del mio browser e resto a fissare un attimo la foto sul desktop del mio computer. È una foto che ho scattato l'estate scorsa ma mi sembra tanto tempo fa. 
Il mio viaggio solitario negli States. Il traghetto per Ellis Island. 


Appunti sul mio taccuino. Boston. Niente sembra più essere abbastanza. E tutto sembra finto, privo di sostanza, se non le piccole cose, gli attimi imprevedibili, gli incontri casuali, gli incidenti di percorso. L'uomo che fa taiji nel parco, la donna sconosciuta che mi saluta con un sorriso, i due uomini con un bambino e un passeggino, il ragazzo che canta e suona la chitarra sul ponte, il cigno che cova nel suo nido al bordo del laghetto, il passero che mi si è avvicinato saltellando e si è fermato a guardarmi di traverso, il clic della mia macchina fotografica, il silenzio dentro il quale attraverso il vuoto per arrivare a toccare l'essenza delle cose sull'altra riva del tempo. 

L'ultima notte a Manhattan in cima all'Empire State building. Poggio il viso contro la rete metallica facendo sparire le trame di ferro dalla mia visuale. Oltre, c'è il vuoto. Oltre, c'è la distesa di luci in movimento di New York. Le voci sussurrate dei turisti alle mie spalle sono un'intercapedine sonora che mi isola ancora di più oltre la rete di protezione, nel vuoto notturno sopra la metropoli. Sono sospesa nel nulla. Sono sola ma non mi sento sola. Sono felice. L'equilibrio è nel vuoto, nel silenzio, nell'assenza.

O in una canzone che, stranamente, racchiude l'essenza di quel viaggio. Questa.



Riportatemi là.

lunedì 24 settembre 2012

Della roulette russa


Guardo le Disponibilità per incarico a tempo determinato A.S. 2012/13 e loro guardano me. Canosa, Andria, Bisceglie, Terlizzi, Molfetta, Gravina, Poggiorsini, Bitonto, Bari, Modugno, Binetto, Rutigliano, Monopoli, Gioia, Sammichele, Turi. Il mio prossimo anno scolastico sta lì in mezzo. O, almeno, dovrebbe. Sperando che, quando sarà il mio turno, mi resti qualche sede "praticabile". Alcune sono semplicemente troppo lontane perché possa accettare. Sarò la settima a scegliere. Diciotto sedi disponibili per una cinquantina di convocati. La consueta roulette russa sta per avere inizio. Tra meno di 24 ore sarà tutto finito. La mattinata si consuma nell'attesa, seduta in mezzo a decine di altri docenti precari di altre classi di concorso, con i nervi contorti per l'ansia mentre quelli che mi precedono fanno le loro scelte e io prego mentalmente che non prendano le sedi che prenderei io. Ma, in genere, sono preghiere che restano inascoltate. 
Ogni volta, quando chiamano il mio nome, sento il cuore che mi salta in gola. Di solito, cominciano a tremarmi le mani. Mi siedo davanti all'incaricato dell'Ufficio Scolastico Provinciale ed è come se mi mettessero in mano un revolver carico. Poi scelgo. Premo il grilletto. A occhi chiusi. Senza fiato. Senza più saliva in bocca. L'incaricato registra la mia scelta e mi dà il foglio con la proposta di assunzione che dovrò consegnare alla segreteria della scuola che redigerà il contratto effettivo. La maggior parte delle volte non conosco la scuola che ho scelto (o le scuole, ché sono state quasi sempre almeno due fino a oggi). È un salto nel vuoto. L'unica certezza è la distanza che dovrò coprire ogni giorno per arrivarci. Anzi, no. Ce n'è un'altra: la certezza di stare per ricominciare tutto da capo. Quest'anno, per il decimo anno consecutivo. Nuovo dirigente scolastico, nuovi colleghi, nuovi alunni, nuovi genitori, nuove regole, nuova struttura, nuovo tutto. Con rare eccezioni. Per esempio, le difficoltà saranno sempre le stesse: classi numerose, orari di lavoro schizofrenici, risorse ridotte al minimo (o anche meno) e la disoccupazione che mi aspetta puntuale come un orologio svizzero, dopo 9 mesi di lavoro intenso. 
Entrare in classe per la prima volta è un momento delicato. I ragazzi ti scrutano, ti studiano, cercano di capire di che pasta sei fatta, se sei brava oppure no. Se sei meglio o peggio di quella/o che c'era l'anno scorso. Tu cerchi di studiare loro che però sono tanti, troppi, per farti immediatamente un'idea della classe. Spesso c'è chi passa direttamente alla provocazione per vedere come reagisci, per capire fin dove potrà spingersi. E, comunque, quella prima volta è importante, fondamentale. Lì si mettono le basi per il rapporto che si costruirà in seguito, giorno per giorno.
Io sono abbastanza brava a imparare subito i loro nomi. Non i cognomi. Quelli non m'interessano, li imparo dopo con calma. Alcuni colleghi mi dicono che sbaglio, che dovrei chiamare gli alunni per cognome perché così si mantengono le distanze, un modo spiccio per definire meglio i ruoli, insomma. Io, però, preferisco chiamare i ragazzi per nome. Non m'interessa mantenere le distanze. Non credo che facciano bene alla didattica e neanche alla relazione con la classe. I ruoli, il mio e il loro, cerco di definirli in altro modo. Ma, certo, è il mio punto di vista, questo. È il mio modo di essere.
Così quest'anno, probabilmente, dovrò mandare a memoria altri 150 nomi da assegnare ad altrettanti volti mentre i nomi e i volti dei miei alunni degli anni scorsi stanno ancora lì, nella testa, a fissarmi vividi e sorridenti. Mi mancheranno. Nonostante la fatica, nonostante le difficoltà, nonostante le incomprensioni, nonostante i musi lunghi e i brutti voti delle giornate no. Perché sono i loro sorrisi che continuo a ricordare più di ogni altra cosa, le volte che mi hanno fatto ridere, che mi hanno insegnato qualcosa, le loro anime giovani, la loro vitalità.
Insegnare non è facile. Soprattutto oggi. Però è la cosa che so fare meglio. E gli unici ai quali devo davvero dimostrarlo ogni volta sono seduti tra i banchi, in una classe, il più delle volte scalcinata, non in Viale Trastevere 76 a Roma. A quei signori lì l'ho già dimostrato e non ho intenzione di sprecare altro tempo ed energia per dimostrarlo un'altra volta.


venerdì 21 settembre 2012

Dei consigli degli altri

Diversi anni fa, una persona (una molto diversa da me, una che non siamo d'accordo su quasi niente, una molto più anziana di me) mi ha detto: "Vattene da qui. Sei una ragazza in gamba. Qui sei sprecata. Vattene!" Io e la mia maledetta testardaggine! Io e il mio maledetto sentimentalismo! Io e la mia maledetta propensione a non voler seguire i consigli degli altri. Ogni tanto, ci potrei pure provare!


mercoledì 19 settembre 2012

Della prima puntata

Si era fermato in mezzo alla strada. Il percorso era in salita e decisamente faticoso ma i cartelli e le indicazioni puntavano tutti in quella direzione. Di fianco alla strada principale ce ne erano altre, tante piccole deviazioni tortuose, senza indicazioni e senza cartelli. Non sapeva dove portassero quelle strade e neppure se portassero davvero da qualche parte. Eppure, all'improvviso, si era fermato. Guardava la strada in salita davanti a sé. Era da tanto che camminava su quella strada e, per tutto il tempo, aveva continuato a salire e sudare e sbuffare e non l'aveva mai vista diventare più dolce, più piacevole. Si sedette su un sasso. La domanda che continuava ad agitargli i pensieri, da un po' di tempo, era sempre la stessa: "Sei sicuro che stai andando nella direzione giusta?" Il problema è che non riusciva più a rispondersi di sì. Aveva continuato comunque a camminare sulla stessa strada perché non gli sembrava saggio avventurarsi per altre vie sconosciute, nonostante alcune apparissero vagamente più allettanti di quella che stava percorrendo. Temeva di perdersi, d'incamminarsi per strade ancora più faticose di quella che aveva scelto. I passanti che incontrava lungo il cammino lo esortavano a continuare. Quando aveva provato a confidare i suoi dubbi a qualcuno, quello l'aveva guardato come se fosse impazzito. Ovvio che si dovesse continuare a seguire la strada principale! Bisognava stringere i denti e accettare i passaggi più o meno scomodi e affollati che ogni tanto si riuscivano a ottenere. Poi scendere e rimettersi a camminare. Prima o poi sarebbero arrivati a destinazione. E poi, gli dicevano, chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa quel che lascia, non sa quel che trova. Certo, rispondeva lui, ma potrebbe pure trovare qualcosa di meglio. Si trattava di correre un rischio, alla fine. Già, il rischio. Quanto era disposto a rischiare? In realtà, lui non era un tipo disposto a rischiare molto. Almeno, non lo aveva più fatto da quando aveva scelto d'imboccare quella strada. Ma forse, a pensarci bene, non era mai stato disposto a rischiare sul serio. Aveva sempre avuto paura di perdere quello di buono che era riuscito a ottenere o a costruirsi e aveva finito per limitare il rischio e ignorare il suo istinto o i suoi desideri. Li aveva frenati, messi a tacere o incanalati altrove. Pensava di essere un uomo equilibrato, ragionevole. Invece, adesso, all'improvviso, cominciava a pensare di essere semplicemente un vigliacco.
C'erano di quelli che avevano cambiato strada e sapeva che molti erano già arrivati a casa. Si era detto che erano sicuramente persone migliori di lui, persone in gamba, forti, capaci. Lui non era così. La sua mediocrità era un limite con il quale si confrontava ogni giorno e lo spingeva a non cambiare percorso. 
Seduto sul sasso, guardò la strada principale in salita. Diventava sempre più ripida, sempre più arida e desolata. Poi, guardò la strada che si apriva vicino al suo sasso. Era stretta. Si piegava subito in una curva e scompariva in una folla di alberi frondosi.
Rimase seduto a pensare per un bel pezzo.
(Fine prima puntata)

mercoledì 12 settembre 2012

Della sposa

Resto ad aspettare, affacciata al balcone come una vecchia comare. Voglio vederla.
È stato un caso, in verità. Ero in veranda per sfuggire ai soliti rumori spaccanervi e poter leggere più tranquillamente The Eyre Affair. Però, stamattina, c'era una concitazione particolare per strada, oltre al solito trambusto di mamme e papà che vengono a depositare i loro pargoli qui sotto, parcheggiando come capita e, a volte, senza neanche spegnere il motore dell'auto.
Così, ho scoperto che "c'era una sposa", la figlia di un vicino. Pian piano, davanti alla porta dell'appartamento a piano terra della sposa, ha cominciato a radunarsi gente dal look sbrilluccicoso. Le damigelle d'onore (due) indossavano abiti hollywoodiani verde smeraldo con fili di strass, le capigliature elaborate e i tacchi spropositati. Gli abiti dei lui presenti lucidi e neri come petrolio e un fiore bianco appuntato sulla giacca. Due macchinoni, tirati a nuovo e decorati con fiori e nastri di tulle, parcheggiati in maniera incurante del traffico che, in genere, passa sotto casa. Le coreografie de "Il giorno più bello" non possono tenere conto delle scarne necessità del quotidiano: la sposa deve uscire dalla porta di casa e trovare la carroz... ehm... l'auto pronta ad attenderla. 
Istintivamente, cerco lo sposo tra la gente presente. Che cretina, mi dico! Lui non c'è: l'aspetta in chiesa. È lì che i padri delle lei le consegnano ai lui, futuri capi-famiglia. È così che funziona nelle nostre società patriarcali.
Attraverso la porta aperta dell'appartamento, intravedo un tavolo di legno sul quale è stata sistemata un'enorme composizione floreale che lo occupa quasi per intero. Mi vengono in mente la bare chiuse, durante i funerali, con le corone di fiori posate sul coperchio di legno massiccio. Lo so, lo so. È un mio problema, questo. Continuo ad associare inconsciamente i matrimoni ai funerali e viceversa. Dico matrimonio invece di funerale e funerale invece di matrimonio. Sbaglio sempre. Non so che farci. 
Dopo un po', mi sento vagamente idiota a starmene appoggiata alla ringhiera del balcone a osservare quello che succede per strada. Mi accorgo che ci sono altre persone (tutte donne e un paio di bambini) affacciate agli altri balconi: aspettano anche loro che esca la sposa. Mi viene da ridere e ritorno al mio libro. Ma non riesco a concentrarmi. Cos'è questa curiosità esagerata per i matrimoni e, soprattutto, per la sposa? Ché, lo sappiamo bene, lo sposo ha il ruolo di attore non protagonista in questo show. La vera e unica protagonista indiscussa è lei: la sposa. Gli sguardi sono tutti per lei. Perché? Quando mi sono sposata, sapevo che sarebbe stato così: avrei avuto gli occhi di tutti addosso. E l'idea non mi piaceva per niente. Non volevo essere al centro dell'attenzione. Non mi piace essere al centro dell'attenzione. Mi mette a disagio (tranne a scuola, in classe. Lì mi piace, anzi, guai quando perdo l'attenzione di qualcuno!). Difatti, quando sono arrivata al giardino dove mi sono sposata e ho visto gli invitati che aspettavano tra le aiuole, sarei voluta sprofondare sotto terra. Che vergogna che ho provato in quel momento! Va be'... poi passa, per fortuna. Quando gli occhi hanno finito di spolparti, diventano di nuovo innocui e tu sei libera un'altra volta.
Giovane coppia - Efeso, Turchia - maggio 2007
Questa sono io, però. E mi rendo conto di essere abbastanza poco ortodossa per essere una femmina occidentale contemporanea dell'Italia del sud. Quando mi capita di partecipare a un matrimonio o di vederne casualmente uno per strada, provo una punta di ammirazione per la sicurezza disinvolta con la quale la sposa affronta il suo pubblico e si offre generosamente agli obiettivi di fotocamere e videocamere. In fondo, i matrimoni di oggi non sono altro che piccole messe in scena. Spettacoli organizzati fin nel più piccolo dettaglio. Si fa a gara a chi lo fa più bello, più originale, più raffinato, più elegante, più spiritoso, più lungo, più trasgressivo, più rock... Trovo che il livello di pacchianeria che si riesce a raggiungere con i matrimoni sia tra i più alti registrabili in qualsivoglia altro contesto. Diventano la fiera dell'eccesso. La gente si trasforma, si traveste da star del cinema o da puttana/magnaccia (a seconda dell'effetto finale). Alcuni, semplicemente, sono ridicoli. Ma perché? Cos'è questa frenesia da matrimonio? Cos'è questa smania di apparire, mostrarsi, agghindarsi, esagerare?
Mi riaffaccio al balcone. Eccola, sta uscendo! C'è il fotografo ufficiale che dirige la scena: "Fate spazio alla sposa!" (C'è sempre chi, per pochi attimi, spera di rubarle la scena e sorride con ostentazione.) "Facciamo salire la sposa in macchina?" Lo scintillio di una miriade di brillantini mi saluta dal basso. La sposa è al braccio del suo papà. Ha il velo, i guanti e anche lei è tutta sbrilluccicosa. E il vestito? Com'era il vestito?, recita la domanda di rito. Non so. Non sono restata a lungo a guardare. Mi è bastato avere la mia conferma. La sposa è bella, come tutte le spose. Intorno a lei lo spettacolo è appena cominciato. Tutto secondo copione. Tutto come deve essere. La trama è ovvia. L'attrice principale anche. D'altronde, che m'aspettavo?

giovedì 6 settembre 2012

Del paradiso

Sono le otto e un quarto. P. mi aveva dato appuntamento per le otto e mezza. Mi sono appena svegliata. Non ce la faccio. La chiamo. Lei mi dice che va bene se partiamo un po' più tardi e insiste che vada.
Va bene. Sono quasi le nove quando partiamo. Lei va al maneggio vicino al mare. Io vado semplicemente a mare. Mi lascia nei pressi di Lido Tavernese. 
"E se piove?" 
"Pazienza. Mi bagnerò."
"Potevo darti la macchina..."
"No, non mi va. Non ti preoccupare. Ci sentiamo dopo."
Ci salutiamo.
Arrivo sul mare. La linea di costa che mi accoglie è una striscia sottile di pietre e sassi. C'è un signore anziano seduto su una piccola sdraio che mi blocca il passaggio. Devo superarlo e poi percorrere un tratto con i piedi nell'acqua per raggiungere un lembo di sabbia calpestabile. Mi dirigo a sud. Il mare che bagna la riva è color fango. Forse nei giorni scorsi sarà stato mosso o forse è una conseguenza delle piogge di ieri. Più al largo, invece, è di un azzurro brillante che si staglia contro nubi bianche e spumose, la linea dell'orizzonte netta a indicare la rotondità del mondo. 
Cammino. Il sole mi costringe a strizzare gli occhi. In lontananza, davanti a me, vedo le sagome di tre persone che procedono nella mia stessa direzione. Sono molto distanti. Dietro di me, nessuno. L'uomo seduto sui sassi è scomparso dietro le dune di sabbia e le pieghe sinuose della costa. 
Cammino e c'è silenzio. A eccezione del jazz delle onde. 
Cammino e sono sola. 
Fa caldo. Mi fermo. Infilo le ciabatte di gomma in una tasca della borsa, mi sfilo i pantaloncini e la maglietta e li metto via. Riprendo a camminare.
I colori, oggi, sono brillanti. L'aria è tersa. Vorrei avere la macchina fotografica con me ma l'ho lasciata a casa. A un certo punto, poggio la borsa sulla sabbia e corro su per una duna. Voglio capire dove mi trovo. Oltre la duna c'è la zona umida e uno stagno con degli uccelli che ci nuotano dentro. Più in là c'è la statale. Non ho idea di dove sia arrivata. Ritorno sulla spiaggia e riprendo a camminare.
Guardo l'orologio. Sto camminando da oltre venti minuti e ho incontrato solo una donna che parlava al cellulare nei pressi di un lido. 
L'acqua che bagna la riva diventa sempre più limpida e io ho sempre più caldo. È arrivato il momento di fermarsi. Lascio cadere la borsa sulla sabbia ed entro in mare. Mi tuffo. È bellissimo qui. Mi piace. E non c'è nessuno. Molto più avanti vedo qualche ombrellone e poche sagome scure di altri bagnanti.
Esco dall'acqua, prendo la maschera e ritorno a tuffarmi. Trasparenza infinita che si tinge d'azzurro. Sott'acqua, la sabbia bianca imita le forme delle onde del mare. Un banco di piccole marmore mi segue dappertutto e mi fa il solletico ai piedi quando li poggio sul fondo sabbioso. 
Se mi fermo a guardare l'orizzonte, vedo solo diverse sfumature di blu, azzurro, verde, dal cielo al mare, a eccezione dei cumuli bianchi dall'apparenza soffice, poggiati sulla linea dell'orizzonte. Se mi volto verso la costa vedo le dune di sabbia, il canneto e la mia borsa. Ogni tanto si sente il canto di un uccello che s'aggiunge a quello del mare. Poi, basta. Poi, nessuno.
Questa solitudine silenziosa mi ha ingoiata viva e adesso io sono mare, sabbia, sole, aria. Finalmente, non penso a nulla. La mente è vuota. Come l'orizzonte. 
Esco dall'acqua e mi stendo al sole. Respiro. Mi slaccio il pezzo di sopra del mio costume e lo sfilo via. Respiro.
Quando, più tardi, riapro gli occhi e mi metto a sedere, mi accorgo che c'è una coppia che si è fermata non troppo lontana da me. Per fortuna sono due persone silenziose, riservate. Lei indossa un solo pezzo, come me. 
Torno in acqua. 
È incredibile quanto un pezzetto di tessuto sintetico incida profondamente sul senso di libertà che si prova a farsi scivolare addosso la carezza sensuale del mare. Mi allontano dalla costa e tiro via anche il secondo pezzo. Metto la testa sott'acqua. Il paradiso.


sabato 1 settembre 2012

Della beffa - Lettera aperta al Ministro Profumo


All’inizio del nostro percorso di studi universitari noi non sapevamo ancora di voler fare le insegnanti d’inglese. Semplicemente, con la nostra formazione e le competenze linguistiche che abbiamo maturato nel tempo, in Italia e all’estero, a un certo punto, c’è sembrata la scelta più ovvia. Niente più concorsoni per noi, però. L’ultimo risale al 1999. Dieci anni fa, quindi, l’unica strada percorribile per l’abilitazione all’insegnamento era la Scuola di Specializzazione all’Insegnamento Secondario, la SSIS, ovvero la naturale evoluzione dei concorsi, voluta dai precedenti governi per svecchiare le consuete procedure di formazione e assunzione nella scuola (leggi, il concorso), in ottemperanza a quanto stabilito dagli accordi di Lisbona del 1989, validi per tutta l’Unione Europea. Due anni di corsi universitari, puntellati di lezioni ed esami, 300 ore di tirocinio, relazione finale ed esami, scritti e orali. Due anni pagati profumatamente alle università che, per ben 9 cicli, hanno trovato nella SSIS la gallina dalle uova d’oro. Già allora si diceva che i posti disponibili per i corsi erano in relazione alla reale necessità della scuola italiana. Evidentemente si affermava il falso se, dieci anni dopo, noi siamo ancora qui a ingrossare le fila del precariato scolastico. Ma siamo abilitate, con un esame che ha, è bene ricordarlo, “ai sensi del decreto legge 28 agosto 2000 n. 240 […] valore di prova concorsuale ai fini dell’inserimento nelle graduatorie permanenti [oggi, GaE]”.
Abbiamo cominciato a lavorare con supplenze temporanee o incarichi a tempo determinato (i contratti annuali, per intenderci, di quelli che cominci a lavorare a settembre e alla fine di giugno non vai in vacanza, come crede il Ministro Profumo, ma vai a fare la disoccupata per un paio di mesi). Abbiamo scoperto che il lavoro che abbiamo scelto di fare ci piace e ci riesce anche discretamente bene. Non siamo noi a dirlo. Ce lo dicono le famiglie e gli studenti che sperano di vederci tornare l’anno scolastico successivo e invece ci vedono migrare in un’altra scuola per soddisfare un meccanismo di reclutamento così complesso e farraginoso che spiegare come funziona a uno che nella scuola c’ha messo piede solo da studente è un’impresa decisamente ardua.
Dieci anni così. Dieci anni ad aspettare di poter svolgere il nostro lavoro con una certa continuità didattica (un concetto che non sembra avere più nessun peso nella scuola-azienda del futuro) e con la tanto agognata stabilità contrattuale. Dieci anni che ci hanno fatto crescere professionalmente e umanamente, nonostante le condizioni di lavoro spesso disagevoli. Dieci anni durante i quali avremmo voluto fare di più, dare di più, se solo ce lo avessero concesso. Dieci anni a scalare una graduatoria che, nel corso del tempo, ha subìto diversi stravolgimenti dovuti alle rampanti intuizioni di ministri spavaldi e spesso incompetenti, mischiando ogni volta le carte, facendo saltare diritti acquisiti o, almeno, condizioni che sembravano consolidate. Se insegnassimo in un altro qualsiasi paese europeo, sarebbe bastato essere impiegate con contratto a tempo determinato nella scuola per 3 anni consecutivi per passare di diritto a lavorarci a tempo indeterminato. L’Italia, però, da questo punto di vista, preferisce non uniformarsi all’Unione Europea.
E arriviamo al presente. È da qualche giorno che TG e giornali sbandierano con clamore ed entusiasmo l’imminente concorso per l’immissione in ruolo di 11.892 insegnanti nella scuola pubblica. La panacea al male del precariato, l’ingresso di docenti “giovani, preparati e meritevoli” nella scuola italiana. E già questo ci fa un po’ arrabbiare. Anzi, ci fa molto arrabbiare. Perché, automaticamente, noi inseriti nelle GaE (Graduatorie a Esaurimento), diventiamo, per opposizione, “vecchi, incompetenti e non meritevoli”.
Ma andiamo oltre.
Forse non tutti sanno che questi giovani fenomenali di cui il Ministro Profumo tanto parla, non potranno partecipare affatto al concorso in questione. Infatti, stando alle norme in vigore, i requisiti per l’accesso al concorso sono i seguenti:
• Possono partecipare ai concorsi coloro che siano in possesso dell'abilitazione (Art. 1) – [conseguita, quindi, grazie ad un corso SSIS o all’ultimo concorso del ’99, cioè ottenuta tramite prova concorsuale.]
• Possono partecipare anche docenti in possesso del solo titolo di laurea, purché conseguito entro il 2001/02 per corsi quadriennali, 2002/03 per i corsi quinquennali e 2003/04 per i corsi esaennali – [si tratta, quindi, di candidati che, facendo un po’ di calcoli, non avranno sicuramente meno di 30 anni.]
• Possono partecipare anche i soli diplomati (ISEF, Conservatori, Accademie) purché i diplomi siano conseguiti entro l'anno in cui si conclude il periodo prescritto dal relativo piano di studi a decorrere dall'anno accademico 1998/99 (DI 460/98 Art. 2)-[ idem come al punto precedente.]
• Possono partecipare anche i docenti non in possesso dell'abilitazione, qualora non ci fosse un numero sufficiente di abilitati (3 volte i posti disponibili) (art. 4) – [ipotesi fantascientifica per la maggior parte delle classi di insegnamento.]
Detto questo, che sembrerebbe già sufficiente a chiarire la beffa, si aggiunga che le famigerate Graduatorie a Esaurimento sono piene zeppe di insegnanti abilitati, plurititolati, già valutati e con diversi anni di esperienza nella scuola pubblica alle spalle e, quindi, proprio per questo, non più tanto giovani (anagraficamente!). Nella graduatoria della nostra classe di concorso, nella nostra sola provincia di appartenenza, per esempio, ci sono oltre 300 persone regolarmente abilitate all’insegnamento per una dozzina di posti disponibili ogni anno.
A questo punto, le contraddizioni sono evidenti: i “giovani” non possono accedere al concorso e quelli invecchiati nelle GaE non possono essere stabilizzati e, soprattutto, i cosiddetti precari storici (alla fine, i principali destinatari di questo concorso) sono già abilitati e idonei all’insegnamento. Perché dovrebbero sostenere una prova che hanno già sostenuto e superato, prova peraltro più complessa e articolata di questo “innovativo” concorso?
E non finisce qua. Quest’anno saranno avviati anche i TFA (Tirocinio Formativo Attivo), ossia delle SSIS in miniatura che, nel giro di un anno (anziché i due previsti dalle SSIS), abiliteranno altri insegnanti.
Ma dove andranno tutti questi insegnanti? Che ce ne facciamo, Ministro Profumo, di tutti questi insegnanti: giovani, vecchi, abilitati, laureati, specializzati, perfezionati, entusiasti, amareggiati, meritevoli, poco meritevoli, competenti, incapaci, preparati, poliglotti, tecnologizzati, informatizzati, intraprendenti e, soprattutto, esasperati? Dove li mettiamo, ché i posti disponibili nella scuola sono così pochi che ci sono persino insegnanti in esubero utilizzati su classi di concorso differenti dalla propria o mandati a ricoprire incarichi amministrativi? Dove li mandiamo, ché i docenti sicuri di andare in pensione in questi anni sono stati “trattenuti” in servizio e non hanno più né la voglia, né la forza di restare là? Dove li facciamo lavorare questi fantastici illusi, ché le classi diminuiscono mentre il numero di alunni per classe aumenta ogni anno (in spregio alla qualità dell’insegnamento)?
Questo sarà il nostro decimo anno di precariato e il nostro futuro professionale è sempre più incerto, in barba a quella posizione ai “vertici della classifica” che siamo riuscite a guadagnare in questi anni. Il suo brillante concorso, noi, Signor Ministro, non lo faremo, ma siamo pronte, come ogni anno, a ricominciare da capo, in un’altra scuola, con altri studenti e altri colleghi, a dover dimostrare di nuovo quanto valiamo e quello di cui siamo capaci, noi vecchie e, perciò, incompetenti e poco meritevoli. Non è semplice e non è bello. Alla lunga, è un processo logorante. Eppure speriamo di riuscire a entrare in classe anche quest’anno. Ché la scuola vera finora l’abbiamo fatta funzionare noi, nonostante le vostre porcherie!

Graziana Giotta (40 anni)
Maria Mastropierro (34 anni)
Docenti precarie di lingua inglese dal 2003

martedì 28 agosto 2012

Del risveglio

Sono rimasta sola, seduta al grande tavolo dove la signora E. ci ha appena servito la colazione. 
C'è musica in sottofondo: Franz Liszt, Consolazione n.3. La finestra e la porta-finestra della stanza spaziosa sono aperte. Dalla veranda entra solo il respiro fresco del mattino. Nessun altro suono. Resto immobile, le braccia sul tavolo, lo sguardo che vaga pigro intorno: l'antico pavimento in legno, la pila di cd sulla mensola di pietra del camino, il grande vaso con le orchidee bianche sul tavolo della colazione, le ciotoline con la marmellata, le briciole di pane nei piatti, il filtro umido del tè, le tegole scure dei tetti, il verde degli alberi e delle piante nel cortile interno del palazzo cinquecentesco e sulla veranda. Siamo all'ultimo piano.
Ogni viaggio ha i suoi momenti perfetti, di quelli che restano nella memoria come perle. A Torino il momento perfetto è questo qui: la quiete, la pace, l'armonia, l'equilibrio. Il tempo rallenta, non c'è più prima e dopo. Respiro. Chiudo gli occhi. Perfetto.
Poi mi alzo. Vado fuori. Gli occhi volano oltre i tetti. La gatta di famiglia mi si avvicina silenziosa. Mi piego per accarezzarla. E subito arriva la signora E. Mi saluta, mi parla pacatamente, con un gran sorriso. La signora E. è bella e molto gentile. Ma l'equilibrio s'incrina. Le parole hanno spesso quest'effetto. Ad ogni modo, un'altra perla è stata conquistata. E resta là, a far compagnia alle altre.



mercoledì 15 agosto 2012

Della confusione

L'incertezza causa confusione. La mancanza di fiducia causa incertezza. Quindi, il problema è la mancanza di fiducia. La facciata non è stata dipinta bene e le crepe si vedono. La soluzione, però, è da ricercare altrove. L'attesa è insostenibile. Soprattutto adesso. Ma neanche allora. E forse, allora, sarebbe stato meglio aspettare. Ma adesso? Mi sento presa in giro. Mi sento una deficiente. La deficiente che aspetta. Nella confusione. Non va bene agire quando c'è confusione. 
Come faccio a ritrovare la quiete?

lunedì 6 agosto 2012

Della distanza

Sole bollente. Anche l'ombra profumata degli alberi non è sufficiente ad allentare l'abbraccio soffocante del caldo. Il corpo diventa molle, i sensi sono intorpiditi, perciò la mente si rilassa, non pensa a niente. Solo, vigila e respira. Non c'è bisogno di far nulla, nessuna urgenza, niente fretta. Sono stesa sotto un albero. Una grossa cavalletta mi salta sul dorso della mano. Cerco di scrollarla via ma quella resta dov'è. La guardo. Le cavallette così grandi mi fanno senso. In genere. Adesso, invece, no. La osservo e mi sembra solo un altro pezzo di questo puzzle del tempo rallentato.
Spesso riempio la mia tazza d'acqua fresca dal rubinetto fuori dalla casetta della fattoria e la bevo con soddisfazione. Lo facciamo tutti. Questa fonte d'acqua diventa il centro della piccola comunità provvisoria. Ci si viene per bere, per lavare le stoviglie o prima, mentre si cucina; per lavarsi i denti, per infilare la testa sotto il getto d'acqua fresca o per sciacquarsi la faccia.
Le tende sono piazzate in maniera disordinata tra gli alberi del boschetto o nelle radure. La mia è nascosta tra gli alberi. Ci si arriva grazie a un piccolo sentiero tra rovi e arbusti. Si sta bene, lì in mezzo. La mattina, quando il sole torna a splendere forte, le fronde degli alberi trattengono un altro po' la frescura della notte. Prima di alzarmi resto stesa nella mia tenda ad ascoltare le cicale. Si sentono solo loro. Ogni tanto arriva la voce di qualcuno che passa lì vicino, suoni pacati, rassicuranti. E quando poi cala la notte, le cicale lasciano la scena ai grilli, la ninna nanna dell'estate. (E a José che russa nella tenda dietro la mia, ma va bene lo stesso.)

Le mie braccia e le mie gambe portano i segni di giornate passate all'aperto, lontana dalle comodità urbane e con pochi vestiti addosso: graffi, lividi, punture di insetto e la pelle che si colora di sole. 

La doccia è uno dei momenti più piacevoli delle giornate afose. Ce ne sono due, una di fianco all'altra, con la struttura fatta di canne. Per terra ci sono dei grossi sassi piatti. I teli appesi all'ingresso garantiscono una discreta intimità ma la sensazione è quella di fare la doccia all'aperto. Che è una sensazione molto piacevole.

E poi arriva la sera fresca e il corpo ritrova l'energia. Si sta insieme, si chiacchiera, si ride, si mangia, si beve vino, si canta, ci si conosce, si assiste incantati allo spettacolo di Vita e delle sue palle di fuoco.
Una sera, mentre aspettiamo la nostra pizza, in fila davanti al forno a legna, Luca mi dice: "Guarda là!", e indica il cielo con un dito. Le stelle. So che ci sono. Mi fermo spesso a guardarle quando vado verso la mia tenda, al buio. Sono tante. Sono luminose e sono belle. Ma è anche bello che Luca abbia voluto condividere questa cosa con me.
E poi c'è la luna che, in questi giorni, splende piena e illumina i nostri passi incerti sul terreno sconnesso, anche senza bisogno delle torce.
E, soprattutto, ci sono gli altri e le altre, incredibili altri e incredibili altre, che occasioni speciali come questa riescono a fare incontrare. I sorrisi s'incrociano, s'incrociano gli sguardi e le intenzioni. Si sta bene.

Andrea mi aveva raccontato che gli era già capitato. Ora capita a me. Dopo solo pochi giorni trascorsi senza guardarmi in uno specchio, rivedere la mia immagine riflessa durante il ritorno a casa è un'esperienza straniante: la donna con la pelle abbronzata e gli occhi rossi di sole che mi guarda dall'altra parte dello specchio sono davvero io?
Torno, ma la mente resta a galleggiare nella campagna ciociara: aria bollente di sole, frinire intenso di cicale, una cavalletta sul dorso della mano, acqua fresca, falò di notte, tante stelle, luna piena, concerto notturno di grilli, alberi, profumo di resina e terra, pranzi messi su con quasi niente, cene tutti insieme, seduti per terra, pizze nel forno a legna, sangria, vino buono, sagra di paese, sorrisi, mani che si sfiorano, occhi che s'incontrano, pensieri che volano leggeri.

L'essenziale. La lentezza. 
La distanza. 
Tra dentro e fuori. Zero. 
Tra questo e il resto. Molta. 
Mondi dentro mondi. Solo gli occhi a raccontare. Ad infinitum.





giovedì 26 luglio 2012

Del pomodoro

Ero una bambina e ogni tanto facevo una puntata nell'orto di papà. Staccavo il pomodoro dalla pianta, lo pulivo un po' con le mani e lo mettevo tutto in bocca per evitare che, mordendolo, il succo schizzasse dappertutto. Schiacciarlo tra i denti, con le guance gonfie, era come provocare una piccola esplosione di sensazioni: il calore profumato del sole mescolato al turgore della buccia e al cuore liquido, succoso, leggermente aspro del pomodoro.
Stamattina non ero nell'orto di papà. Ero nella mia cucina e m'è venuta voglia di mangiare qualcosa. Ho visto i pomodori dell'orto di papà nella coppa sul tavolo. Ne ho preso uno, l'ho sciacquato e l'ho morso piano. Uno schizzo debole. Pochi danni. Non è così che si fa! Remember? Tutto in bocca e... scrunch! La piccola esplosione. E il ricordo di un'infanzia colorata. 
E profumata di pomodori bollenti di sole.

giovedì 29 marzo 2012

Dell'aprire e chiudere parentesi

Aperta parentesi.
Riempio la vasca. Sciolgo i sali da bagno che ho preparato io stessa. 
Il profumo delle spezie si sprigiona in tutta la sua freschezza. 
Cardamomo, cannella e coriandolo. 
M'immergo. 
La musica che mi raggiunge dall'altra stanza è un'onda lieve. 
Chiudo gli occhi. 
Mi dimentico del resto. 
Chiusa parentesi.




martedì 20 marzo 2012

Della giostra impazzita

Certi ritmi sono innaturali. Non mi piacciono e mi fanno male. Il corpo è stanco. Si trascina senza energia, senza entusiasmo. La mente stenta a sollevarsi oltre il tangibile contingente. 
Il lavoro, dice. Ma è giusto che il lavoro diventi totalizzante e arrivi al punto di sostituirsi alla vita stessa? O non è fatta, piuttosto, la vita, di tante piccole cose e non occupa, ognuna di esse, il suo posto e la sua importanza nell'esistenza di ognuno di noi? Non è altrettanto importante il riposo, lo spazio da dedicare a se stessi? Lo spazio e il tempo per non far nulla se non "star stesi sotto un albero a guardare le nuvole"; lo spazio e il tempo per raccogliersi in un angolo comodo e silenzioso ad ascoltare musica o leggere un libro; lo spazio e il tempo per guardare negli occhi le persone alle quali vogliamo bene, senza fretta, senza ansia.
Invece c'è sempre qualcosa da fare, un impegno improrogabile, una necessità apparente a trascinarci lontano da noi. E sento il malessere che mi cresce dentro. Perché trovo che questo nostro modo di vivere sia maledettamente sbagliato. 
Non solo. Come possiamo dedicarci veramente al nostro lavoro e farlo bene se siamo insoddisfatti, se ci sembra che ci manchi l'aria per respirare?
Ma la macchina sociale contemporanea, votata all'iperproduttivà e all'iperattività cieche e senza senso, non prevede soste salvifiche. Come nelle marce forzate dei deportati, chi non ce la fa, muore. Una nuova legge della giungla. Solo che questa giungla non ha niente di naturale e, al termine della marcia forzata, non ci sono premi, non c'è vita. C'è un campo di concentramento che, al suo ingresso, reca l'insegna Arbeit macht frei. E, dopo quello, più niente.
*
Primo anno di università a Bari. Facoltà di Lingue e Letterature Straniere. Il palazzo dov'era ubicata la facoltà era reduce dall'occupazione studentesca dell'anno prima. Il professor Vitilio Masiello stava terminando la sua lezione di Lingua e Letteratura Italiana I (corso monografico su Luigi Pirandello). Aula Belfast (così era stata ribattezzata l'aula A dal movimento della Pantera). I corsi stavano per terminare. Sarà stato alla fine di aprile o all'inizio di maggio. L'aula era gremita fino a scoppiare, come al solito. Le lezioni del professor Masiello erano affascinanti, la sua capacità oratoria impareggiabile. Gli studenti occupavano ogni spazio disponibile (in barba a ogni regola sulla sicurezza). Molti erano seduti per terra, altri si erano arrampicati sul davanzale dei finestroni in fondo all'aula. Io ero strizzata tra un mio amico, collega di corso, e un altro sconosciuto, in uno degli ultimi banchi.
Il professor Masiello ci stava comunicando le date degli appelli d'esame. Il pre-appello era a fine maggio. Mancava davvero poco. Il professore ci disse che avrebbe gradito che ci fosse un buon numero di candidati già in pre-appello. Poi cominciò un discorso che aveva a che fare con l'esame e l'università. Ma non solo. Per me, andò decisamente oltre. 
Il professor Masiello ci disse più o meno così: "Preparatevi per l'esame ma non studiate troppo. Studiate ma non perdete troppo tempo sui libri ché il tempo da non perdere, quello veramente importante, è un altro: è il tempo da dedicare a voi stessi, il tempo per star stesi sotto un albero a guardare le nuvole e a pensare ai fatti vostri. Ci sono delle cose che dobbiamo fare, certo. Ognuno di noi ha i suoi impegni. Ma non sono quelle le cose importanti. Sembrano importanti ma, in fondo, anche se non le facciamo subito, il tempo per fare queste cose, prima o poi, lo si trova. Io, per esempio, ho gli editori che mi stanno addosso. Il libro deve essere pubblicato, ci sono scadenze da rispettare... ma non è importante! Il tempo veramente importante è quello da dedicare a se stessi perché quello, una volta passato, non ritorna. Una volta andato, è perso per sempre. Certo, pagherete per le cose che dovevate fare e non avete fatto. Ci sono delle conseguenze. Gli editori me la faranno pagare se non consegno il libro in tempo. Se voi venite all'esame e non siete preparati, io ve la farò pagare ma... non importa! L'importante è che non perdiate il tempo per voi!"
Quando il professore disse questa cosa dell'esame e che ce l'avrebbe fatta pagare se fossimo stati impreparati, scatenò l'ilarità generale in aula. Ci fu un gran baccano. Ridevano tutti. Credo di essere stata l'unica a non ridere. Quello che il professor Masiello aveva appena fatto era il discorso più sensato, più appassionato e più onesto che avessi mai sentito fare da un adulto fino a quel momento. Ero commossa. Avevo letteralmente le lacrime agli occhi. Quando gli altri si misero a ridere, per me fu come risvegliarmi da uno stato di trance. Ero spiazzata. Mi chiedevo cosa ci fosse di tanto divertente. A me sembrava una faccenda serissima. Così seria che quel consiglio spassionato è diventato uno dei pilastri di tutta la mia esistenza. Non perdere il tempo da dedicare a me stessa. Non perderlo perché, una volta perso, non ritorna. Non perderlo perché è quello che conta davvero. 
Perciò continuerò a pagare a questa giostra impazzita sulla quale siamo saliti tutti (o quasi) quello che c'è da pagare per poter scendere, almeno una volta ogni tanto, e andare a stendermi sotto un albero a guardare le nuvole.