La prima forma di protezione è far finta di non vedere,
ignorare, negare.
È uno stadio che può durare a lungo. In alcuni casi, non
finisce mai.
Ma, quando finisce, la presa di coscienza, il
riconoscimento, è improvviso e le conseguenze di ciò sono ineluttabili. Come
una diga che crolla. Le crepe c’erano, ben visibili, ma sono state ignorate. E
la diga, alla fine, ha ceduto. Tutto quello che c’era al di là della diga viene
travolto dalla potenza dirompente dell’acqua trattenuta a forza nel bacino. Una
vastità di lacrime. Bisogna piangerle tutte prima che ritorni la quiete; prima
che l’acqua occupi lo spazio che le è naturalmente proprio e si plachi.
Ma anche dopo, quando le lacrime sono state piante tutte,
bisogna affrontare la distruzione che il crollo della diga ha comportato; contare i morti e i feriti gravi, gli alberi abbattuti, gli animali trascinati
via, la terra mangiata dall’acqua, sommersa. Un disastro.
Eccetto che per
l’acqua che, finalmente, ha rotto i muri troppo stretti che la trattenevano e
ha potuto scorrere liberamente, prendere più spazio. Tutto quello che ha potuto.
Tutto quello che naturalmente le appartiene. Gli uomini l'avevano intrappolata per poter disporre della sua energia, per soddisfare i propri bisogni. Ma
sono diventati superficiali e arroganti. Hanno ignorato le crepe, i cedimenti
strutturali. E l’acqua ha rotto la diga.
L’acqua ha rotto la diga.
Forse non è il caso di costruirne un’altra. Non ancora. Prima bisogna imparare a costruire meglio le dighe.