venerdì 25 novembre 2016

Del sonno sprecato

La grande questione nella vita è il dolore che causiamo agli altri, e la metafisica più ingegnosa non giustifica l'uomo che ha lacerato il cuore che l'amava.
~ Benjamin Constant, Adolphe

Metto le mani sulla pancia, subito sotto l'ombelico, la sinistra sulla destra. Cerco di trasmettere calore al mio secondo cervello attraverso gli strati molli che lo ricoprono, ché il primo, di cervello, è protetto da una corazza più dura e non è facile raggiungerlo.
Provo a placare almeno quello, il secondo. Che magari mandi un segnale a quello dei piani alti, che gli faccia sapere che è indispensabile lasciare andare, che l'amichetto al centro è già affaticato di suo e qui bisogna agire tutti insieme, compatti, se non vogliamo mandare tutto in vacca un'altra volta.

Piove. Giustamente. Ci vuole la scenografia giusta in questi casi. Il sole guasterebbe l'atmosfera cupa.

Chiudo gli occhi alla ricerca di immagini salvifiche, di ricordi che mi facciano sorridere dentro, che mi restituiscano serenità. Il primo ricordo è inaspettato: io bambina che gioco in un'aia d'estate. Poi i ciclamini in un bosco. Il profumo del bosco. Poi io che cammino a braccia spalancate sul percorso dell'acquedotto e respiro avidamente l'odore d'autunno...  
I pensieri molesti mi raggiungono a tradimento, come un'interferenza a disturbare il programma sul quale sono sintonizzata. Mi aggrappo caparbia alla memoria buona: il deserto, il deserto, il deserto, il deserto...
Niente da fare. Mi arrendo. Smetto d'inseguire i pensieri felici e di combattere quegli altri che mi saltano addosso da tutte le parti.

"La mente è tutto.", mi disse una volta un amico che poi dimenticò di avermelo detto e, quando glielo ricordai molti anni dopo, si mise a ridere come se gli avessi raccontato una barzelletta ché, disse, non era sicuro che fosse esattamente così. 
Eppure io, da quella volta che me lo disse, ci ho pensato spesso, soprattutto quando era un altro organo a far male o a far rumore. Mi chiedevo se, alla fine, non dipendesse tutto dalla testa, se non fosse sempre e solo colpa sua. 
E penso pure che, se riuscissi a capire davvero come funziono, se scoprissi dove si trova il pulsante da schiacciare in caso di emergenza, almeno eviterei di trascorrere notti insonni, ché il sonno è sacro e sprecarlo così è il peccato più grande.



sabato 21 maggio 2016

Dell'invisibilità fertile (come Rocky Balboa)




Ci sono delle situazioni nelle quali si diventa invisibili. Gli altri ci vedono, in realtà. Ci guardano. Magari ci rivolgono anche brevemente la parola. Ma siamo lo stesso invisibili. Come spie. La nostra vera identità ben celata dietro l'anonimità di facciata.
Capita in circostanze particolari. Mettiamo il caso che sia notte e ci troviamo da soli in un luogo molto comune che non abitiamo di frequente. Un ospedale, per esempio. Come pazienti.
Ecco. Quindi, è notte, io mi trovo a passeggiare mollemente in vestaglia e pantofole per la corsia deserta del mio reparto ospedaliero, ascolto musica con gli auricolari e mi sento invisibile.
Dalle porte aperte delle stanze di degenza filtrano luci, rumori, versi, voci. Ogni tanto un'infermiera o un'altra paziente o, più spesso, una parente di una paziente attraversano il corridoio o ci si affacciano per poi scomparire di nuovo all'interno della propria stanza. In fondo al corridoio, le porte di emergenza sono specchi quadrati trasparenti che mi rimandano l'immagine di me che passeggio mollemente in una corsia d'ospedale e brandelli notturni del policlinico, con le sue ombre dense, i punti di luce disordinati e l'orizzonte in fuga.
Questa specie d'invisibilità è come accedere ad un ambiente sconosciuto, esserne immediatamente assorbiti e ricevere, in cambio, un luogo d'osservazione privilegiato. E le passeggiate molli in vestaglia e pantofole ascoltando musica diventano riflessioni emozionanti sulla vita. Perché io, il mio intervento (l'ennesimo), l'ho già fatto e sono già in piedi, con la paura alle spalle. E me lo posso permettere, d'impiegare il mio tempo a fare riflessioni emozionanti sulla vita, ammantata della mia invisibilità. Mi posso permettere di ascoltare Fink, provare sollievo, sentirmi nascere spontaneo un sorriso sulla faccia pallida e mettermi a ballare perfettamente al centro della corsia vuota e buia sulle mie gambe incerte, tra barelle e carrelli allineati contro il muro, mentre, dietro le porte accostate delle stanze di ricovero, altre vite continuano la loro personale lotta contro il tempo. Posso rincorrere l'orizzonte in fuga oltre i vetri delle porte d'emergenza, tuffarmi nella densità delle ombre della notte, incantarmi ad osservare il silenzio al neon dei raccoglitori dei rifiuti speciali e sentirmi pronta ad abbracciare un nuovo capitolo della mia vita, così come s'abbraccia il mare: con un tuffo.
E con la stessa ineluttabilità che mi ha trasmesso M. quando ci siamo incontrate in stanza domenica scorsa. Ché lei ha un carcinoma ovarico con metastasi sparse e non c'è più niente da operare. Cerca di star meglio con cicli di chemio e dice, con il tipico accento italo-albanese di prima generazione, vado avanti finché questo corpo me lo permette, che altro posso fare? Ha pochi anni più di me ma sembra più vecchia, i capelli con un taglio cortissimo che me la fa sembrare tanto punk e m'ispira simpatia. Non l'ho sentita o vista lagnarsi mai, nemmeno una volta nel tempo che siamo state vicine (è uscita e rientrata in ospedale due volte mentre c'ero ricoverata anch'io. Una di casa, praticamente). Le piace tanto chiacchierare e raccontarsi e scherzare e far filosofia spiccia. Quando mi ha raccontato la sua storia, non sono riuscita a trattenere le lacrime e mi sono messa a piangere e lei mi ha chiesto scusa, che non voleva farmi piangere e io volevo risponderle: "Ma come cazzo si fa a non piangere con una storia così?!", però, per rispetto, ho omesso di dire "cazzo".
Poi mi ha anche detto: "Quando ti senti giù, pensa a me che sto peggio di te!"
No. Non lo farò. Non così. Perché sentirsi bene in questa vita non può dipendere da quanto male stiano gli altri, per potersi annoverare tra i "fortunati". E perché, ripensandoci, ha ragione la mia amica Grazia che, giusto poco tempo fa, mi ha detto che, secondo lei, forte non è chi non cade mai ma chi riesce a rialzarsi ogni volta che cade. 
Come Rocky Balboa. Una, due, tre, dieci, cento, mille volte. Alla fine, quello che bisogna veramente imparare a fare non è restare in equilibrio per non cadere e nemmeno imparare a cadere meglio, no. La sfida più difficile è proprio trovare quella ragione valida per rimettersi in piedi quando si cade. Ogni volta. Soprattutto quando si comincia a cadere sempre più spesso e a farsi sempre più male. Pensare a chi sta peggio non serve, in quei momenti là. Può aiutare a ridimensionare le proprie tragedie personali ma non è quella la mano forte che ti risolleva da terra. Ti dibatti nel dolore come una disperata, continui a chiederti inutilmente perché, cerchi una via d'uscita e non la trovi e cominci a pensare che sia inutile rimettersi in piedi, per chi, per cosa, tutto questo dolore, tutti questi fallimenti, tutti questi desideri irrealizzati e irrealizzabili ormai, tanto vale restare qua. Invece, se continui a trovare quel motivo che ti fa scuotere la testa come un cavallo, ti fa puntare gli zoccoli per terra e ti costringe a tirarti su, non perché ci sono quelli che stanno peggio di te, ma perché lo vuoi, perché ci credi, ancora e ancora, nonostante tutto, ecco, allora sei forte. Come M.

And the truth begins...