lunedì 30 marzo 2015

Di una mia missione speciale

Trovo piuttosto divertente quando vengono a colloquio da me i genitori (mamma o papà, ma più spesso mamma) di alunni che non si possono definire esattamente "studenti modello" (diciamo così). 
In realtà, la maggior parte di loro non ha bisogno di questo colloquio. Sono anni che si sentono ripetere sempre la stessa storia, con irrilevanti varianti sul tema. In cuor loro sperano, contro ogni evidenza, di ricevere informazioni diverse dal solito ma sanno perfettamente che si tratta, appunto, di una speranza vana.
Ce ne sono di due tipi. Il primo è quello dei genitori rassegnati. Hanno l'aria di chi non vede l'ora che sia finita. Mentre parli, lo vedi che sopportano stoicamente e annuiscono e ti danno ragione ma vorrebbero essere altrove. Alcuni ti assicurano che, non appena tornano a casa, si faranno sentire. Minacciano punizioni apocalittiche (o, più semplicemente, un sacco di legnate). Altri non ci provano nemmeno. Si sono arresi da tempo e te lo dicono senza mezzi termini, come se fosse una liberazione: "Non so che farci! Ci ho provato in tutti i modi ma è inutile!" Una resa incondizionata al nemico. A tutti e due: prole e insegnanti.
Il secondo tipo, invece, è quello dei genitori che, pur sapendo perfettamente quello che c'è da sapere a proposito dei propri figli, piuttosto che sopportare inermi i colpi al cuore, sono pronti a dar battaglia, a difendere la propria genia con ogni mezzo. Ti vengono incontro con sguardo cupo, determinato e un cipiglio di sfida che dice: "Avanti! Sono pronto/a". Controbatteranno ad ogni tuo appunto cercando di ribaltare la conversazione di modo che sia tu a doverti difendere. Hanno abbracciato definitivamente la filosofia per cui la miglior difesa è l'attacco. Aspettano solo che tu lanci il guanto di sfida.
Ecco, sono questi i genitori che mi piacciono di più. Soprattutto quando c'incontriamo per la prima volta e ignorano chi hanno di fronte.
Mi fissano dritta negli occhi. Non distolgono mai lo sguardo. Mi ascoltano e mi studiano con la fierezza del guerriero. E io dico quello che devo dire. Sempre. Senza fare sconti. Però sono convinta che il modo in cui le cose vengono dette riesca a fare miracoli. Sono convinta che, raccontare quello che non va, debba sempre essere accompagnato dal racconto di quello che invece funziona o che potrebbe funzionare. E che tutto possa essere reso meno pesante sdrammatizzando un po'.
Così mi piace un sacco notare come, mentre parlo, gli sguardi sembrino dapprima un po' sorpresi (quasi a chiedersi se non li stia prendendo in giro), di come poi si addolciscano e, alla fine, sempre (sempre da dodici anni a questa parte) si aprano in un sorriso. A volte mi sento persino fare commenti di apprezzamento, tipo: "Vedi? Hai una professoressa giovane e simpatica. Fa pure le battute! E datti da fare, no?" Ci salutiamo sorridendoci e stringendoci la mano. Poi li osservo allontanarsi un po' più leggeri. 
Questi sono i momenti in cui sono veramente orgogliosa di me stessa. Se fossi due, una di me mi darebbe una pacca sulla spalla e mi direbbe: "Ottimo lavoro, babe! Anche questa volta siamo riusciti a mandare a casa i genitori con un sorriso!"