martedì 29 gennaio 2013

Del dialogo

Ottenere un giorno di ferie durante l'anno scolastico, per un docente, soprattutto di questi tempi, è pressoché impossibile. (E già me li sento i detrattori della categoria commentare: "Ma voi insegnanti avete già tre mesi di ferie all'anno! Di che vi lamentate?" Adesso, solo a pensare a un commento del genere, mi sale il sangue agli occhi e mi vien voglia di controbattere all'ipotetico ignorante che blatera di cose di cui non ha piena consapevolezza - e che quindi, solo per questo, dovrebbe tacere! - ma quello che voglio raccontare riguarda altro, perciò vado oltre).
Dunque, a dicembre avevo bisogno di un giorno di ferie e, nell'impossibilità di ottenerne uno, l'unica alternativa praticabile è stata quella di trovare una collega disponibile a sostituirmi. Cambio di giornata libera, lo chiamiamo. Ovviamente, il piacere va poi ricambiato e, quindi, se a dicembre sono riuscita ad avere due giornate libere di seguito, questa settimana che ho restituito la cortesia alla collega gentilissima che mi era venuta in soccorso, di giornata libera non ne avrò nessuna. 
Poco male! I patti sono patti e la gratitudine è una pratica virtuosa. Vero è che nella giornata nella quale sono stata sostituita, io avevo solo tre ore di lezione (seconda, terza e quarta) mentre la mia collega, oggi, ne aveva quattro (dalla prima all'ultima con un buco alla seconda ora) ma sono stata io a chiedere il favore e va benissimo così.
Però. 
Fine prima ora di lezione in una terza che non era nemmeno una mia classe. Aspetto sulla porta il cambio che non arriva. Arriva invece un'altra collega con un foglio in mano e mi dice: "La prof. X è assente. Puoi fare un'ora eccedente in terza A?" "La terza A è questa...", le faccio notare. "Ah, ecco! Allora ti puoi fermare qui a fare un'altra ora di supplenza?" L'ho guardata con gli occhi supplichevoli di un cane bastonato: "Per piacere! Cinque ore di fila pure oggi, no! Sto già sostituendo una collega, questa settimana salto la giornata libera e ho le corde vocali a pezzi... Non c'è nessun altro disponibile?" Lei mi guarda scoraggiata: "No, non c'è più nessuno. Non sappiamo come fare a coprire quest'ora..." 
Voglio sbattere la testa contro il muro e mettermi a piangere. (Maledetta Mariastar Gelmini! Ovunque tu sia, che tu sia maledetta!!)
"E va bene. La faccio..."
Inspiro profondamente e mi giro per tornare alla cattedra (mentalmente ripongo i compiti che devo finire di correggere e il registro che devo finire di aggiornare e i libretti del teatro in inglese che non riesco a trovare il tempo di guardare) mentre la mia collega chiude la porta alle mie spalle. 
I ragazzi mi chiedono: "Prof, resta lei?"
"Sì, resto io."
"Che bello!", fanno loro.
(Speriamo che sia veramente bello, penso io).
E che facciamo adesso? Non hanno nemmeno i libri d'inglese... Mi viene in mente che mi piacerebbe far loro delle domande, quelle che mi pongo ogni giorno sul lavoro che faccio e che restano spesso senza risposta; quelle per le quali formulo ipotesi che poi cerco di verificare sul campo. Mi viene in mente che potremmo semplicemente parlare. Di scuola. 
Glielo propongo. Mi dite com'è la vostra scuola ideale? Come ve l'immaginate? Cosa cambiereste in questa? Chiedo loro di essere onesti. Dico, partiamo dal presupposto che la scuola è necessariamente faticosa, per quanto la cosa non ci piaccia. Quindi non mi rispondete fesserie, tipo "Vogliamo venire a scuola solo due mesi all'anno" o "Non vogliamo compiti a casa". E loro accettano. E mi rispondono.
Cominciano dall'organizzazione spicciola. Vogliono cominciare le lezioni più tardi. Vogliono restare a scuola anche a pranzo e fare qualche ora di lezione al pomeriggio in cambio di una riduzione del carico di compiti pomeridiano. Vogliono la settimana corta: niente lezioni di sabato. Vogliono più laboratori. 
Ma della didattica? Che mi dite della didattica? I vostri insegnanti? Come li vorreste, voi, i vostri insegnanti?
Meno severi, più comprensivi... E poi c'è quella ragazza che mi dice: "Mi piacerebbe che gli insegnanti provassero più spesso ad avere un dialogo con noi, come sta facendo lei adesso..." Un suo compagno aggiunge: "Vorremmo che gli insegnanti avessero più fiducia in noi." Un'altra alunna dice: "Io vorrei che certi insegnanti non usassero quello che sanno della nostra vita privata per umiliarci davanti a tutta la classe...".
Ci confrontiamo. Pongo loro i miei dubbi, racconto le mie esperienze dall'altra parte della cattedra. Chiedo: ma non pensate che gli insegnanti debbano anche essere delle guide per voi, dei modelli? Mi rispondono di sì. E allora, chiedo ancora, non può essere che, a volte, pure noi insegnanti meritiamo un po' più di fiducia da parte vostra? Magari, voi non lo capite o non ve ne rendete conto, ma noi sappiamo dove stiamo cercando di portarvi e abbiamo solo bisogno che ci seguiate con maggior fiducia.
Poi ci sono quelli che la fesseria la dicono lo stesso: "Vorrei che gli insegnanti si assentassero più spesso!" Oppure: "Vorrei che gli insegnanti aderissero di più agli scioperi." (Anch'io, veramente, ma non lo dico!)
Nessuno fa riferimento alla preparazione dei prof. Evidentemente i nodi non sono lì. I nodi sono nelle relazioni. Il nodo è il dialogo, fidarsi gli uni degli altri, ascoltarsi. Ed è un processo lento, difficile, logorante. Certo, i successi, quando e se arrivano, la valgono tutta quella fatica. La gratificazione, quando e se arriva, è bellissima e spesso resta come un ricordo indelebile nella carne del tempo.
Poi abbiamo parlato di altro: di progetti, ambizioni, desideri, quelli che avevo io, quelli che hanno loro.

L'ultima ora di lezione l'ho fatta in una delle mie classi, un'altra terza. Mentre sistemavo portatile e proiettore per far vedere loro un film in inglese, ho confidato ai ragazzi quanto fossi stanca e le difficoltà di stare dal lato della cattedra con la sedia larga. Poi ho chiesto: "C'è qualcuno che vorrebbe fare l'insegnante da grande?"
Sorprendentemente, tre o quattro hanno alzato la mano. Una, però, in maniera titubante. "A., allora, vuoi fare l'insegnante o no?"
"A me piacerebbe ma mia madre non vuole..."
"Tua madre fa l'insegnante?"
Lei si mette a ridere: "Sì!"



martedì 15 gennaio 2013

Della quiete pericolosa

Era il 2003. Mi pare. 
Frequentavo il secondo anno della SSIS (Scuola di Specializzazione per la formazione degli Insegnanti di Secondo Grado). Corso di Didattica della Letteratura (straniera). Lo teneva il prof. Mugnolo - o l'ottavo nano, come lo chiamavamo io e qualche altra corsista. Non era molto alto, in effetti, ma era per via del suo cognome che lo chiamavamo così. Però avremmo potuto pure chiamarlo Brontolo ché non lo vedevamo sorridere mai. Serio, professionale, competente, colto, distaccato, esigente. Temibile. 
Nell'ultima parte del corso, suddivisi in gruppi di lavoro, avevamo scelto un'opera letteraria di nostro gradimento e, sulla base di quanto appreso durante il corso, avremmo dovuto ipotizzare una presentazione della stessa opera a una classe di studenti (superiori, evidentemente, ché alle medie non ti metti a insegnare letteratura straniera). 
Su mia proposta, il gruppo del quale facevo parte ha scelto di lavorare sul racconto della scrittrice inglese Angela Carter, The Bloody Chamber (La Camera di Sangue), rivisitazione sensuale e sovversiva della fiaba di Barbablù. 
Alla fine del lavoro, ogni gruppo sarebbe dovuto salire in cattedra e impostare la sua lezione. Questa comunicazione, però, ci è stata fatta solo alla fine e il professore ha preteso che individuassimo subito una persona all'interno del gruppo per cominciare. Nel mio gruppo, sono stata praticamene costretta a immolarmi alla causa: "Il racconto l'hai scelto tu! Lo conosci meglio di noi. Vai tu!"
Primo gruppo a cominciare? Il nostro, ovviamente. Non avevo avuto nemmeno il tempo di rivedere i miei appunti. 
Ho preso la mia vecchia edizione Feltrinelli con la raccolta della Carter (Lire 10.000, il prezzo di copertina) e mi sono diretta verso la pedana rialzata dell'aula universitaria della Facoltà di Lingue, accompagnata da un silenzio scricchiolante.
Il temibile professor Mugnolo mi aspettava in cattedra. Ho preso posto a fianco a lui. Eravamo così vicini che distinguevo perfettamente i grani di forfora sul collo della sua giacca. Davanti e sotto di me, gli occhi dei miei colleghi di corso mi osservavano e aspettavano che cominciassi.
Evidentemente, il serio e temibile prof. Mugnolo si rendeva conto che la situazione poteva risultare un tantino emozionante per chi, come me, saliva per la prima volta dall'"altra" parte di una cattedra universitaria e ha cercato di mettermi a mio agio a modo suo: "Ecco! Adesso lei cominci tranquilla. Si rivolga ai suoi colleghi. Io, magari, se lo ritengo opportuno, la interromperò per farle qualche domanda e metterla in difficoltà, sperando di non diventarle antipatico dopo..." 
Mi sono sentita rispondere con sfrontata spontaneità: "Non c'è problema. Tanto mi sta già antipatico." E, incredibilmente, il serio e temibile prof. Mugnolo s'è messo a ridere, insieme a tutta l'aula. Mi ricordo perfettamente il suo ghigno sussultante. Cercava di contenersi ma non gli è riuscito troppo bene, rivelando a tutti che il serio e temibile prof. Mugnolo era dotato di senso dell'ironia e sapeva ridere.
E ho cominciato la mia lezione. 
Io, che mi emoziono in maniera incontrollabile quando sono al centro dell'attenzione, lì sopra, invece, mi sentivo calma e sicura. Aprivo il libro della Carter per leggere i passi che mi servivano a supportare quanto affermavo, guardavo fiduciosa il mio uditorio e percepivo lo sguardo concentrato del professore al mio fianco che seguiva il mio discorso. Era una sensazione inaspettatamente piacevole stare lì ad argomentare di temi che mi appassionavano, con tutte quelle persone che stavano ad ascoltarmi.
Poi, un buco improvviso. Non riuscivo a trovare la parola giusta per completare un concetto. Mi sono fermata. 
Silenzio. 
Ho avvertito lo sguardo interrogativo del professore che si voltava verso di me. I miei colleghi mi fissavano e aspettavano.
E la cosa strana è stata questa: non sono andata nel panico, non mi sono allarmata, non mi sono imbarazzata, la mia mente non annaspava freneticamente alla ricerca della parola sfuggevole. Invece, ho assaporato quell'attimo sospeso come quando d'estate si succhia un ghiacciolo in una torrida giornata estiva. 
In quella dilatazione apparente del tempo, mi sono sentita potente e una. Avrei potuto prolungare il silenzio senza scompormi. Avrei messo a disagio chi mi stava ascoltando. Avrei causato un certo sconcerto. Avrei potuto riprendere a parlare all'improvviso, l'attenzione di tutti accentuata dal mio protratto silenzio, cambiando argomento, dicendo qualcosa di folle, provocatorio, volgare. Mi sarei potuta mettere a cantare. Sarei potuta salire in piedi sulla cattedra e mettermi a ballare il tip tap. 
Quel vuoto, quella lunga pausa non premeditata mi sembrava l'anticamera di numerose alternative, tutte irrazionali e praticabili, il vestibolo dell'improbabile che diventa possibile, dell'inaudito che diventa fatto. Tutti quegli occhi aspettavano solo che io dicessi o facessi qualcosa. Loro erano i miei testimoni...
Poi, nella quiete pericolosa della mia mente, è apparsa la parola che mancava. L'ho detta a voce alta e il tempo ha ripreso a scorrere nella sua banale convenzionalità.
Quando ho finito e sono scesa dalla cattedra, il fatto sensazionale registrato, comunque, era questo: ero riuscita a far ridere il serio e temibile prof. Mugnolo.