venerdì 27 novembre 2015

Del fare cose da sola

Mia madre non capisce il fatto che io faccia cose da sola. Ma, ancora di più, non capisce il fatto che mi piaccia fare cose da sola. 
Quando le dico che ho fatto una cosa o sono andata da qualche parte, subito mi chiede: "Con chi?" 
E io: "Da sola."
E lei: "Come 'da sola'?"
E mi guarda come se fossi una poveretta.

Anche oggi ha fatto così, quando le ho detto che ieri, a Bari, al cinema, c'ero andata da sola.
Allora ho provato a spiegarglielo, che mi piace veramente fare le cose da sola. Anzi, che c'ho proprio bisogno di fare le cose da sola ogni tanto, che mi fa bene, che mi rilasso.
Le ho detto: "Sono stata benissimo. È stata una giornata perfetta!"
Gliel'ho raccontata. 
Le ho raccontato del pranzo a base di rigatoni, purea di fave, rucola, gamberetti e pomodorino consumato nella tavola calda dove vado di solito quando mi tocca pranzare fuori, del fatto che non ho trovato pioggia per strada (anzi, a un certo punto, c'era persino il sole) ma ho trovato subito parcheggio al Park&Ride di Pane e Pomodoro e pure la navetta pronta che è partita non appena sono salita a bordo. E poi le ho raccontato del muffin caldo che ho preso in via Sparano, servito da una ragazza gentilissima dal viso simpatico. E degli slip che ho comprato mentre c'era una tizia che mi parlava convintamente in georgiano, dei libri che ho preso alla Feltrinelli e del fatto che al cinema c'era gente educata e civile e che ho potuto guardare in versione originale il film che inseguivo da un po' in una sala silenziosa e attenta. Che poi son tornata tranquillamente alla navetta, all'auto e al paesello con un sorriso beato stampato sulle labbra. Che, arrivata al paesello, mi sono fermata al mio bistrot preferito, ho preso qualcosa da mangiare che ho portato via con me, sono tornata a casa e mi sono versata un bicchiere di vino rosso a giusta conclusione di una giornata perfetta. E che, infine, mi sono addormentata placidamente, come una bambina buona.
Lei mi ha ascoltata con interesse. 
Magari questa volta l'ho convinta.

venerdì 26 giugno 2015

Della seconda puntata



Erano passati tre anni da quel giorno in cui era restato seduto a lungo sul sasso a chiedersi se non fosse il caso di cambiare strada.
Non aveva cambiato strada. Non allora.

Un giorno, una donna che incontrò lungo il cammino, gli disse che, secondo lei, quando le cose sono troppo complicate, quando, per quanto ci sforziamo di andare in una certa direzione, gli ostacoli non accennano a diminuire ma, anzi, si fanno sempre più difficili da superare, allora vuol dire che quella non è la strada giusta.
La considerazione suonava come l’eco di un pensiero che l’aveva visitato più volte negli ultimi anni. Ogni volta che era caduto rovinosamente, ogni volta che gli era arrivata una frustata improvvisa, ogni volta che si verificava un avvenimento che veniva immediatamente percepito e interpretato come un evento sfortunato, si era chiesto se non fosse, invece, l’esatto contrario: un’occasione propizia per cambiare percorso. 

S’era immaginato la vita che lo prendeva di peso mentre lui percorreva la strada principale nel bosco e lo scaraventava malamente su un altro sentiero e gli urlava: “T’ho detto di no! Non è di là che s’arriva a casa!” Ma lui, ogni volta, s’era rimesso in piedi ed era tornato testardamente sulla strada principale.

Adesso, per l’ennesima volta, la vita ci stava riprovando. L’aveva ripreso di peso e l’aveva scaraventato un’altra volta da un’altra parte. Era stata molto violenta stavolta, la vita. Aveva dovuto esserlo perché lui era veramente testardo. 
A quanto pare, però, era servito. Ci aveva messo un po’ a rimettersi in piedi e a curarsi le ferite ma non aveva più nessuna intenzione di ritornare sulla strada principale. Troppi ostacoli. Troppo male. Troppa fatica. Nessun obiettivo che valesse veramente la pena. Nessuna casa all’orizzonte. Tanto valeva provare un’altra strada.

(Fine seconda puntata)

Petra, Giordania, Gennaio 2015


lunedì 18 maggio 2015

Del prosciutto di Parma

Dico subito una cosa per fugare ogni dubbio a proposito di come la penso: la scuola italiana, così com'è, non va bene. 
Per esempio, non funziona la struttura organizzativo-didattica, non funzionano la formazione e il reclutamento degli insegnanti, non funzionano la logistica e le risorse (umane più che tecnologiche) in dotazione agli istituti. Insomma, io, la scuola, la rifarei tutta da capo.
Detto ciò, il DDL che si sta facendo approvare in questi giorni non risolverà nessuno dei problemi della nostra scuola. Anzi, non farà altro che aggravarne lo stato di salute.

Questo DDL, cosiddetto della "Buona Scuola", (e, ogni volta che lo dico, mi viene da sputare per terra ché è vero piuttosto l'opposto) è solo l'ultimo tentativo di smantellare il nostro sistema d'istruzione pubblica a favore di un modello aziendalistico-privato che, anziché ispirarsi a un'idea di società democratica, pluralista, inclusiva, equa e collaborativa, vira prepotentemente verso l'affermazione dell'individualismo, della competitività, della gerarchizzazione, del pensiero acritico.
In questo DDL (che dice di voler promuovere la "Buona Scuola") non si spende una sola parola a proposito dell'insegnamento in sé. Per esempio, non c'è nessun riferimento a nuovi strumenti o strategie o interventi per il recupero del disagio scolastico. Non si parla né di programmi, né di sperimentazione didattica.

Invece, secondo Renzi & co., la Buona Scuola si avrà miracolosamente perché (contrariamente a quanto continuano ad affermare arrogantemente su tutti i media che riescono a controllare) la posizione dei docenti diventerà permanentemente precaria (la posizione di tutti i docenti, cioè, non solo quella delle poveracce come me che, ormai, la parola PRECARIA, ce l'hanno stampata a fuoco su una chiappa, tipo Prosciutto di Parma). 
La nostra scuola, grazie a questo DDL, migliorerà perché deciderà tutto il dirigente scolastico (c'erano una volta i presidi!). Sentito il parere del collegio dei docenti e del consiglio d'istituto, certo. "Sentito il parere". Poi il dirigente farà, comunque, a capocchia sua. E se il parere degli organi collegiali era un altro, be', ci s'attacca al tram. 
Ché, poi, è quello che sta succedendo adesso tra Renzi e il mondo della scuola. Né più, né meno. "Parlate, vi ascolto." "Guarda, Matte', non siamo proprio d'accordo con questo DDL. Così la scuola la sfasci completamente." "Ok, grazie, ho capito ma facciamo lo stesso come ho deciso io! Se non vi fosse ancora chiaro, ve lo rispiego meglio con una lavagnetta e due gessetti colorati."
E la democrazia? La democrazia è bella che finita.

E poi che la piantino con la storia delle 100.000 assunzioni! Io non voglio elemosine. "Guarda che bravi che siamo!", dice. "Ti assumiamo!" 
Ma a che condizioni volete assumermi, avvoltoi che non siete altro! Voi, millantatori della peggior specie! 
Io ho maturato il diritto di essere assunta. 12 anni fa lo Stato mi ha garantito che mi avrebbe assunta. 12 anni fa! Ma quello che propone adesso questo governo è un ricatto bello e buono. 
"Ti assumo ma devi rinunciare a questo diritto e a questo e a quest'altro..."
Sapete che c'è? C'è che i ricatti mi fanno schifo. Soprattutto quelli di Stato.

Il risultato più immediato di questa riforma sarà quello di demotivare pure gli insegnanti che, finora,  (per usare una raffinata espressione francese) si sono fatti il culo a quadretti colorati per la scuola; quei docenti che, come me, non hanno bisogno di due spiccioli in più in busta paga per sentirsi valorizzati o gratificati. Il mio merito, la mia gratificazione, io, me li guadagno sul campo, in classe, tra i ragazzi. Quello che pretendo dai miei datori di lavoro è, invece, uno stipendio dignitoso, non l'elemosina di qualche bonus elargito a vanvera. 
Pretendo, inoltre, di poter svolgere la mia professione in condizioni ottimali, confortata dalla consapevolezza di avere un riconoscimento sociale per il ruolo importante e delicato che ricopro, piuttosto che ritrovarmi a dover investire gran parte delle mie risorse a dribblare i continui tentativi di fallo a gamba tesa da parte del Ministero per il quale lavoro o a difendermi dagli attacchi indiscriminati del popolino nostrano, roso da una immotivata (ma sapientemente fomentata) avversione sociale nei confronti della mia categoria. 

Il risultato più immediato di questa riforma, quindi, sarà quello di creare una folla di docenti senza più entusiasmo e determinazione. Naturalmente, i "ricchi premi e cotillons" previsti dal DDL andranno ai soliti noti dalle lingue lunghe foderate di velluto, che continueranno a lavorare come al solito (generalmente, poco e male). Quelli che cadono sempre in piedi perché la coerenza è un concetto sopravvalutato e l'unico principio a cui attenersi scrupolosamente è "Io penso per me. Che gli altri s'arrangino!". 

Quanto a me, probabilmente mi terrò la parola PRECARIA tatuata su una chiappa e forse mollerò questo lavoro al quale ho dato tanto e che mi ha dato tanto, perché non ho vocazione da suddita.
Voi, intanto, continuate pure a contestare allegramente agli insegnanti e agli studenti 'sti cazzo di tre mesi di vacanze all'anno. E siate felici!




lunedì 30 marzo 2015

Di una mia missione speciale

Trovo piuttosto divertente quando vengono a colloquio da me i genitori (mamma o papà, ma più spesso mamma) di alunni che non si possono definire esattamente "studenti modello" (diciamo così). 
In realtà, la maggior parte di loro non ha bisogno di questo colloquio. Sono anni che si sentono ripetere sempre la stessa storia, con irrilevanti varianti sul tema. In cuor loro sperano, contro ogni evidenza, di ricevere informazioni diverse dal solito ma sanno perfettamente che si tratta, appunto, di una speranza vana.
Ce ne sono di due tipi. Il primo è quello dei genitori rassegnati. Hanno l'aria di chi non vede l'ora che sia finita. Mentre parli, lo vedi che sopportano stoicamente e annuiscono e ti danno ragione ma vorrebbero essere altrove. Alcuni ti assicurano che, non appena tornano a casa, si faranno sentire. Minacciano punizioni apocalittiche (o, più semplicemente, un sacco di legnate). Altri non ci provano nemmeno. Si sono arresi da tempo e te lo dicono senza mezzi termini, come se fosse una liberazione: "Non so che farci! Ci ho provato in tutti i modi ma è inutile!" Una resa incondizionata al nemico. A tutti e due: prole e insegnanti.
Il secondo tipo, invece, è quello dei genitori che, pur sapendo perfettamente quello che c'è da sapere a proposito dei propri figli, piuttosto che sopportare inermi i colpi al cuore, sono pronti a dar battaglia, a difendere la propria genia con ogni mezzo. Ti vengono incontro con sguardo cupo, determinato e un cipiglio di sfida che dice: "Avanti! Sono pronto/a". Controbatteranno ad ogni tuo appunto cercando di ribaltare la conversazione di modo che sia tu a doverti difendere. Hanno abbracciato definitivamente la filosofia per cui la miglior difesa è l'attacco. Aspettano solo che tu lanci il guanto di sfida.
Ecco, sono questi i genitori che mi piacciono di più. Soprattutto quando c'incontriamo per la prima volta e ignorano chi hanno di fronte.
Mi fissano dritta negli occhi. Non distolgono mai lo sguardo. Mi ascoltano e mi studiano con la fierezza del guerriero. E io dico quello che devo dire. Sempre. Senza fare sconti. Però sono convinta che il modo in cui le cose vengono dette riesca a fare miracoli. Sono convinta che, raccontare quello che non va, debba sempre essere accompagnato dal racconto di quello che invece funziona o che potrebbe funzionare. E che tutto possa essere reso meno pesante sdrammatizzando un po'.
Così mi piace un sacco notare come, mentre parlo, gli sguardi sembrino dapprima un po' sorpresi (quasi a chiedersi se non li stia prendendo in giro), di come poi si addolciscano e, alla fine, sempre (sempre da dodici anni a questa parte) si aprano in un sorriso. A volte mi sento persino fare commenti di apprezzamento, tipo: "Vedi? Hai una professoressa giovane e simpatica. Fa pure le battute! E datti da fare, no?" Ci salutiamo sorridendoci e stringendoci la mano. Poi li osservo allontanarsi un po' più leggeri. 
Questi sono i momenti in cui sono veramente orgogliosa di me stessa. Se fossi due, una di me mi darebbe una pacca sulla spalla e mi direbbe: "Ottimo lavoro, babe! Anche questa volta siamo riusciti a mandare a casa i genitori con un sorriso!"


sabato 28 febbraio 2015

Di una celebrazione

27 febbraio di venti anni fa. 
Polly Jean pubblicava il suo lavoro più bello.
Esco di casa per andare al lavoro. Lo porto con me. 
Il muso della mia macchina si affaccia oltre la porta del garage. La musica parte.

I suoni s'infilano sotto la pelle come serpenti e risvegliano emozioni addormentate.
Il sangue comincia a far rumore. I muscoli pulsano. Il respiro si fa largo. La voce si mischia a quella di Polly Jean.
Guido ma l'abitacolo dell'auto mi contiene a stento.

Salto le tracce. C'è lei che mi chiama forte.

Over
Under
Die of
Pleasure

La pelle si squarcia. I muscoli si tendono. Il petto è un tamburo. Gli occhi sono dappertutto.

You wanna hear my long snake
moan!
You oughta see me crawl my
roar!

Come posso essere ancora seduta qui? Sono precipitata dentro e sono anche oltre l'orizzonte. Sono me stessa di oggi e tutte le me stessa che mi hanno accompagnato fino a qui. Batto con le mani sulla coscia, sul volante. Scuoto la testa. 

Moan! 
M O A N !

Pelle d'oca. Occhi lucidi. 
Il concerto a Firenze quello stesso anno, a novembre. 
Polly Jean sul palco. Felina, sinuosa, con la sua voce potente.

Little fish big fish swimming in the water
Come back here, man and gimme my daughter

Sento i capelli che mi si rizzano sulla testa. Credevo d'aver dimenticato. Credevo d'averle perse. Invece no. La tempesta le ha riportare in superficie. La voce di PJ le fa vibrare.
Rabbrividisco per il piacere. Stacco le mani dal volante. Tengo il tempo con tutto il corpo. Voglia di esplodere nella musica.

E poi arriva lei, il gran finale.
Cantiamo insieme, io e PJ.

'Cause I've cried days
I've cried nights
For the Lord just to send me some sign
Is he near? Is he far?
Bring peace to my black and empty heart
So long day
So long night
Oh Lord, be near me tonight
Is he near? Is he far?
Bring peace to my black and empty heart.

Profonda commozione.












sabato 7 febbraio 2015

Dei salti nel vuoto

L'ha condiviso un mio contatto su Facebook.
Il video s'intitola How to lose your girlfriend (like a boss).
Lo guardo. Alla fine sono stesa sul letto a ridere forte con le lacrime agli occhi.

E ho voglia di rivederlo. E di nuovo rido fortissimo.

Perché? Perché mi diverte così tanto?

Nel video ci sono un ragazzo e una ragazza. Sono sulla cima di una roccia. Sotto di loro il vuoto. C'è un'altra voce maschile fuori campo che filma.
Sono imbracati e la ragazza è sul ciglio dello strapiombo. Dovrebbe lanciarsi ma ha evidentemente paura. Honey, I don't wanna do it... Don't push me! [Tesoro, non voglio farlo... Non mi spingere!] Il suo ragazzo cerca di farle coraggio e di rassicurarla. I'm right here. I'm not gonna push you. [Sono qui. Non ti spingo.]  Neanche troppo, a dir la verità. I'm not gonna push you... If you're staying here for more than ten seconds, I will. [Non ti spingo... Se resti qui per altri dieci secondi, lo faccio.]
Poi lei sembra pronta. Lui comincia il conto alla rovescia. Three, two, one e la spinge via, oltre il bordo. Ma lei, all'ultimo momento, esita, biascica qualcosa, cerca di riafferrare il braccio di lui. Troppo tardi. Vola via, legata alla fune. Precipita nel vuoto. Le sue urla di terrore riecheggiano tra le montagne. E poi un grido rabbioso: I'm breaking up with you. [Io ti lascio!]
La voce del tipo che sta filmando chiede: What did she say? [Che ha detto?]
Il ragazzo si lascia cadere sulla roccia divertito e dice: I just got dumped! [Sono appena stato scaricato!] e si abbandona ad una grassa, contagiosa risata.*

Cos'è che trovo tanto divertente? All'inizio ho pensato che mi piacesse il senso di libertà che mi apre il petto quando la ragazza viene spinta nel vuoto. Penso che mi piacerebbe fare una cosa così, volare attaccata ad una fune.
Ma no. Io rido. Rido come una matta, alla fine. Quindi, quando il ragazzo dice che è appena stato scaricato e scoppia a ridere forte, tenendosi la pancia. É lì, in quel momento, che provo un senso di liberazione fortissimo. E mi viene da ridere. E rido. Fino alle lacrime.

Poi capisco. É un attimo.

I just got dumped! Hahahahahah!


* per la cronaca, la ragazza è ritornata in cima, ha riabbracciato il suo ragazzo, ha ritirato quello che ha urlato appesa alla fune e ha dichiarato che è decisamente valsa la pena saltare.

venerdì 30 gennaio 2015

Di pensieri disordinati, eccessivi e poco eleganti

Perché pare che, in questo periodo di crisi, l'unica cosa importante sia avere il posto fisso. Gli affetti, le piccole soddisfazioni personali, vengono dopo. Perché dobbiamo mangiare. Perché dobbiamo sopravvivere. Ma, se è così, allora piantatela di dire puttanate, la storia che il lavoro nobilita l'uomo. A parte il sessismo insito in quest'affermazione, il lavoro pesante e senza soddisfazioni, il lavoro fatto per necessità, in condizioni pessime e senza passione non nobilita un cazzo!
Perciò, io non sarò felice e soddisfatta se e quando otterrò un posto a tempo indeterminato nella scuola se questo comporterà rinunce importanti e condizioni di lavoro disgraziate. Per esempio, non voglio fare la tappabuchi nelle scuole a tempo indeterminato. Vorrei fare l'insegnante a tempo indeterminato. Non la tappabuchi! E se, alla fine, mi ritroverò a fare la tappabuchi per necessità, lo farò male e sarò una donna frustrata professionalmente. Con la pancia piena e un tetto sulla testa ma mortalmente insoddisfatta. E, eventualmente, non ringrazierò nessuno per questo lavoro del cazzo (perché avere un lavoro, in generale, dovrebbe essere costituzionalmente un mio diritto, non un privilegio o un favore che mi fa lo Stato o chi per esso). Perciò continuerò a mandare anatemi all'indirizzo di politici di merda e di uomini e donne di merda che hanno tirato su altri uomini e donne di merda che compongono buona parte di questa pessima società. Perché, di merda, ce n'è così tanta in giro che l'umanità, quel tratto che dovrebbe contraddistinguere il nostro genere, sembra esserci annegata dentro, cosicché riuscire a trovarne traccia (dell'umanità, cioè) è ormai difficilissimo.
E vedo ragazzi che crescono male, abbandonati a loro stessi, alle pessime tv e a modelli adulti corrotti, brutti, falsi, innaturali e idioti. Ragazzi ai quali abbiamo rubato anche la libertà di sognare con i nostri sguardi tristi e i nostri animi miserabili.
E dice che viviamo in un Paese a maggioranza cattolica. Se fosse vero, dovrebbe essere un piccolo paradiso sulla terra: tutti fratelli e sorelle, tutti pronti a soccorrere il prossimo, tutti pronti a mettere da parte i propri egoismi, tutti disponibili alla condivisione e ad accogliere l'altro senza distinzione alcuna, tutti compassionevoli e caritatevoli. Invece no. Non è vero un cazzo! Ché la maggioranza cattolica fa una valanga di eccezioni e discriminazioni ed è bravissima a puntare il dito e condannare. L'aureola di santi beati martiri spunta sulla testa solo quando accogliere, condividere, rispettare, soccorrere non costa un piffero stonato.
E ci ritroviamo tutti contro tutti a dividerci l'unico biscotto che mani grasse hanno lasciato sul tavolo dopo averci sottratto la scatola intera. E noi, poveri deficienti, continuiamo a scannarci gli uni gli altri per dividerci quel misero biscotto, invece di saltare addosso a quello dalle mani grassocce e minacciarlo di sfraganarlo di mazzate se non rimette la scatola sul tavolo, cosicché ci possano essere biscotti per tutti.
E quelli che dicono che vogliono fare politica in modo diverso e invece non è diverso un accidente di niente. Le storie si ripetono sempre uguali, incessantemente, perché nessuno ha veramente le palle per (e forse neanche la voglia di) cambiare le cose. Si urla, s'impreca, si battono i pugni e poi, quando ci sono da fare i fatti, i fatti sono sempre la solita merda. E si fa così, dicono, e tu non capisci, e tu non sai, e tu sei ingenua, e tu sei un'idealista, e tu dura e pura, e tu rompipalle, e tu acida, e tu perdente, e tu femmina che ti permetti di avere un'idea diversa dal gruppo dei maschi dominanti...
Sono stanca di questa società squilibrata che pretende di farmi sentire sbagliata solo perché non accetto di mangiare merda in silenzio. Perché non ti devi lamentare! Non serve a niente, oh!

Non serve assolutamente a nulla aver messo questi pensieri eccessivi e disordinati e arrabbiati nero su bianco, lo so, ma almeno adesso i pensieri sono fuori. Dentro mi stavano dando problemi di stomaco.




mercoledì 7 gennaio 2015

Di una notte nel deserto

Siamo arrivati che era già buio. In cielo le stelle e una mezza luna come non l'avevo vista mai. Intorno intuivo una vastità mai sperimenta prima ma nella quale gli occhi non potevano ancora tuffarsi per via del buio.
Dopo cena sono uscita dalla tenda comune dove avevamo cenato, ho preso il mio taccuino e mi sono appartata su una roccia nei paraggi per scrivere alla luce della mia torcia elettrica.
Le voci dei gruppi nella tenda, però, mi distraevano. Allora ho smesso di scrivere e mi sono riavvicinata alla tenda. Ma dentro c'era troppo fumo. Sono restata sulla porta, indecisa. Entro o me ne vado a dormire? In quel momento è uscito Mohammed, uno dei beduini del campo. Abbiamo cominciato a chiacchierare. Non ricordo come sono arrivata a dirgli che cercavo il silenzio. 
"Do you want quiet?", mi ha chiesto. Poi mi ha indicato la sommità della roccia a ridosso del campo tendato. "Up there is quiet. Do you want me to take you there?"
Certo che sì.
"Come with me.", ha detto. E si è addentrato nel buio. Io gli sono andata dietro.
Quando ha cominciato ad arrampicarsi, ho avuto un attimo di esitazione. Quella roccia mi era estranea. Mohammed, invece, procedeva sicuro. Quando ha notato la mia titubanza mi ha chiesto se avessi paura. Gli ho risposto che non riuscivo a vedere dove mettessi i piedi. "Give me your hand.", ha detto. "I'll take you safe up the rock and then down again. Trust me."  
E io mi sono fidata. Quando non ero sicura del mio passo, lo trovavo sempre lì pronto a offrirmi la sua mano calda. Un tocco leggero, incoraggiante. 
Poi Mohammed si è fermato. Eravamo arrivati in cima. Mi sono fermata anch'io. Il silenzio assoluto, totale, completo mi ha ingoiato all'improvviso. Non c'era neanche la voce del vento. Tutto era fermo, immobile, senza suono. Sulla mia testa le stelle e la mezza luna rovesciata. Gli occhi ormai abituati all'oscurità riuscivano a riconoscere gli spazi larghi del deserto che si stendeva ai nostri piedi. Il cuore mi è esploso nel petto. I polmoni si sono dilatati oltre i confini del corpo. Quante volte avevo desiderato vivere un momento come quello! E mi ci sono trovata dentro così, inaspettatamente. Un'emozione vibrante, intensa, incredibile.
"Do you like it here?", mi ha chiesto Mohammed.
Sì. Mi piace. Di più.
Mi ha mostrato la cima di un'altra roccia, un po' più lontana. Mi ha detto che là ci saremmo potuti sedere. L'ho seguito ancora una volta, ancora una volta fidandomi del suo passo sicuro e della sua mano calda. 
Sull'altra cima c'era il sedile di un furgone poggiato sulla nuda roccia. Mohammed s'è seduto senza dire niente lasciandomi spazio accanto a lui. Mi sono seduta anch'io. Sono scivolata sul tessuto consumato del sedile fino a poggiare la testa sullo schienale, le gambe allungate davanti a me, gli occhi rivolti al cielo. 
Ogni tanto parlavamo. Lui mi faceva domande semplici, dirette, con voce morbida, quasi a non voler turbare troppo il silenzio che stavamo abitando. 
Poi mi ha chiesto: "What do you like of your life?"
La mia risposta resterà un segreto tra me, lui e il deserto.
E poi: "Do you want to be quiet now?", mi ha chiesto.
"Yes. Please."
"You tell me when you want to go back.", ha concluso e poi si è raccolto nel suo lungo cappotto di pelle di pecora e ha smesso di parlare. 
Io sono restata a faccia in su, con gli occhi persi tra le stelle, immersa nel silenzio assoluto. Il vuoto si è fatto spazio tra i pensieri, liberandomi la mente. Una felicità impregnata di serenità mi si è adagiata addosso come una coperta. Non desideravo nulla se non essere lì in quel momento. Succhiare ogni goccia di silenzio, accoccolata nel buio foderato di piccole luci sulla mia testa. Il deserto tutto intorno. Un invito a perdermici dentro, a navigare la vastità, a lasciare che l'anima ritrovi la sua forma originaria. Senza confini, senza finte necessità. Bere, mangiare, qualcosa con cui coprirsi. Dormire sotto le stelle. Respirare. Piano. 
Una stella cadente ha attraversato il mio campo visivo come un inchino.
La Bellezza.