giovedì 22 dicembre 2011

Appunti delle prime ore

Fine estate - inizio autunno.
Esco di casa prima che sorga il sole e m'incammino nel blu silenzioso delle strade ancora addormentate. È piacevole. Sollevo istintivamente gli occhi al cielo e mi lascio baciare dalle stelle. L'aria è dolce, profumata, come piena di sussurri magici. Il mio corpo è sciolto, riposato. Mi dirigo sorridendo verso la stazione.
Inverno. 
Esco di casa prima che sorga il sole ed è buio come quando sono andata a dormire la sera prima. Fa freddo. Tengo la testa china, il mento verso il petto, in un gesto istintivo per trattenere il calore del mio corpo teso e stanco, per proteggermi dal freddo. Cammino in fretta per raggiungere al più presto la stazione mentre suoni cupi mi fanno venire voglia di tornare indietro, di scivolare un'altra volta nel mio letto caldo.

L'inverno sarebbe più sopportabile, perfino piacevole, se potessi rallentare un poco i miei ritmi anch'io, come il resto del mondo naturale. Se solo potessi dormire di più, uscire di meno, raccogliermi attorno al mio corpo infreddolito e fare silenzio intorno! Insomma, se solo potessi andarmene un po' in letargo anch'io, l'inverno potrebbe diventare una bella stagione.

*
Gli odori che mi uccidono a prima mattina, quando l'aria è più pulita e il mio olfatto più sensibile:

1. la puzza velenosa dei gas di scarico delle automobili e, ancora di più, dei furgoni e dei camion. Mi strozza il respiro in gola e mi sembra di soffocare;

2. la puzza di bruciato delle sigarette di chi fuma convulsamente mentre mi cammina davanti per strada. Mi stringe lo stomaco e mi fa venire da vomitare;

3. il "profumo" nauseabondo della signora bionda che scende alla mia fermata e che cammina come una bambola a molla; un'essenza floreale così dolce da far venire la carie ai denti per via olfattiva. Non riesco mai a starle davanti e facciamo lo stesso tragitto per un bel pezzo. Cerco di sottrarmi alla sua scia che odora di cimitero appassito spostandomi a destra, poi a sinistra... ma non ci riesco. Allora rallento... rallento... rallento, nella speranza che il tanfo svanisca. Ma è un odore forte e persistente. L'unica mia fortuna è che non viaggiamo insieme tutti i giorni.

martedì 6 dicembre 2011

Le verità del dormiveglia

Cominciare a parlare senza quasi rendersene conto.
Nonostante il sonno, le parole fluiscono senza esitazione e, mentre le dico, mi sorprendo. Sto raccontando pensieri che mi porto appresso da tanto e che non avevo detto mai.
Paura di perdere quel poco che si ha.
In fondo, si tratta solo di paura.
*
Via la scenografia inutile. Ho bisogno di un palco vuoto. Anzi, di un teatro vuoto. Ho bisogno di silenzio. Ho bisogno di fare il vuoto dentro. Bisogna mandar via la stanchezza, ché quella avvelena il sangue e i pensieri. 
*
Quello che chiamano progresso puzza di condanna a morte. La condanna a morte di un intero pianeta. Siamo diventati schiavi delle nostre comodità, altro che progresso. Non avvertiamo più il rumore costante che produciamo, la puzza delle nostre società non ci fa più arricciare il naso, abbiamo dimenticato la luce delle stelle. Ci crediamo importanti; più importanti di un albero o di un sasso; più importanti del mare e dell'aria; più importanti della terra. Ma mentre noi transitiamo velocemente in questa dimensione, il sasso, il mare, l'aria e la terra restano. Chi è più importante, allora?
Cerco di scrollarmi di dosso le regole idiote degli uomini contemporanei e delle loro mode per andare a cercare quelle immutabili del mondo. 
Per trovare il mio equilibrio.
*
Nel sonno mi sciolgo. Il silenzio della notte è una carezza. Il corpo riposa. La mente non dorme ma si riposa anche lei: si libera, sogna.
Sogna.

venerdì 2 dicembre 2011

Sarti

In treno Eligio cuce. Cuce la fodera interna di una giacca da uomo. Lo osservo affascinata e mi torna in mente mia nonna. Era sarta anche lei. Da bambina, mi piaceva starla a guardare mentre cuciva. Per tagliare la stoffa usava un lungo bastone piatto di legno con una delle due punte un po' bruciacchiata e un paio di forbicione pesanti di metallo scuro. Aveva anche una vecchia macchina da cucire Singer. La teneva sotto la finestra della sala da pranzo. Quando non l'usava, e se il filo da cucito non era infilato, mi ci mettevo a giocare. Mi divertiva pestare il piede sul pedale e far girare con la mano la ruota che fa muovere l'ago. Mi piaceva il suono che faceva, ratatatatatatatà!
Le mie zie e mio padre - gli abiti sono opera di mia nonna.
Mia nonna cuciva anche per me e per mia sorella. Quando mi prendeva le misure con il suo metro da sarto erano attimi di completa beatitudine: il tocco leggero delle sue mani che facevano scorrere il nastro giallo e azzurro sul mio corpo, il silenzio della sala da pranzo, i numeri che scribacchiava su un pezzo di carta, il tic toc dell'orologio poggiato su una mensola, gli scricchiolii domestici... Volevo sorridere e dormire e osservare tutto allo stesso tempo. Volevo che durasse a lungo. Invece finiva sempre troppo presto e, soprattutto, dovevo aspettare di crescere un altro po' perché il rituale si ripetesse. 
Mi piaceva starla a guardare, mia nonna. Oggi mi piacerebbe di più.

sabato 26 novembre 2011

Venerdì mattina

Stamattina sono molto stanca. 
Le sei ore di sonno della notte scorsa non mi sono bastate.
E' venerdì e questo venerdì mi aspetta una giornata parecchio pesante. Questa consapevolezza amplifica la sensazione di stanchezza. Eppure, dentro, sento qualcosa che pulsa come un'energia compressa che ha  bisogno di essere liberata. Ascolto la mia musica con l'iPod e quello che vorrei fare è mettermi a ballare, qui, in treno.
Invece resto seduta, guardo fuori dal finestrino il paesaggio che si sveglia e inseguo con la mente vie di fuga; apro brecce liberatorie nel muro della quotidianità.
Odio le routine. Dopo un po' le sequenze ripetute di gesti e situazioni mi vengono a noia, mi provocano fastidio. Persino spostarmi ogni volta sul binario per prendere il treno quando la campana ne annuncia l'arrivo mi procura un leggero senso di frustrazione. 
Le abitudini mi fanno sentire in trappola. C'è gente che le trova rassicuranti; una cornice di certezze nel marasma dell'incerto. Io, invece, le trovo insopportabili. Le abitudini mi avviliscono come una sconfitta.

*

Riesco a ritagliarmi una pausa. Faccio un salto in libreria. Vedo Terracarne di Franco Arminio. Lo prendo, lo sfoglio, leggo la prima pagina, leggo frasi a caso da altre pagine a caso. Lo compro. 
In treno, al ritorno, comincio a leggerlo. Pagina 33. "Il paese in cui vivi è una prigione da cui puoi evadere quando vuoi. Va bene qualsiasi posto, questa è la scoperta. Va bene non farsi intonacare dall'abitudine. Andare fuori, verso l'esterno, questo è il segreto. Osservare il mondo come una forma di preghiera, un pregare appoggiati a un lampione, a un albero, sedersi per terra, entrare in un bar, guardare gente che parla, guardare quelli che stanno soli e quelli che fingono di stare vicini. Sentire che sei altrove e che puoi tornare a casa quando vuoi. Non è la chiave della felicità, ma almeno apri una breccia nel muro delle ore." 
Certe coincidenze sono belle come un sorriso.

PS: Grazie a Paola, la mitica Paola, che, qualche tempo fa, mi ha presentato questo signore di nome Franco Arminio.



venerdì 18 novembre 2011

Un'altra possibilità

Mi avevano promesso che non si sarebbero distratti, che non avrebbero disturbato la lezione se li avessi lasciati sedere vicini. Ero convinta che non ci sarebbero riusciti ma ho voluto dar loro, comunque, una possibilità. La possibilità di smentirmi, di dimostrarmi che sanno essere responsabili, che non sono più dei bambini. 
L'hanno sprecata, come accade quasi sempre in questi casi. Hanno cominciato a chiacchierare e ridacchiare dietro i leggii azzurri che la scuola ha dato loro in dotazione. Per la postura corretta, è la motivazione. In realtà, i ragazzi sono così impegnati a nascondersi dietro quello scudo plastificato, contorcendosi in posizioni assurde, che trovo che fosse sinceramente meglio prima. Per non parlare del fatto che i banchi sono troppo piccoli per contenere leggio e materiale didattico e, prima o poi, qualcosa finisce per cadere a terra con gran fracasso, mandando in frantumi il sempre precario stato di concentrazione della classe.
Comunque, i due ragazzetti hanno cominciato a ridacchiare complici. Piano, all'inizio; una volta ogni tanto. 
Non appena incrociavano il mio sguardo di disapprovazione, smettevano e tornavano seri. Poi, in un momento in cui l'attenzione generale si era un po' allentata, li ho visti ridere liberamente. Non si erano nemmeno accorti che mi ero messa in piedi e che li stavo fissando severa. 
E, all'improvviso, mentre stavo per alzare la voce e rimproverarli, mi sono ritrovata con la mente e le emozioni dall'altro lato della cattedra; mi sono risentita ragazzina dietro i banchi di scuola. Ho provato come un fremito di allegria. M'è venuta voglia di ridere insieme a loro, di scomparire in un groviglio di sguardi d'intesa e di battute stupide. Mi sono sentita stranamente leggera e ho contenuto un sorriso. 
Poi mi sono riseduta dietro la cattedra senza dire niente.

lunedì 7 novembre 2011

40

Ritorno.
So già che sarà diversa. Cambia in fretta, lei. Ma, in fondo, la riconoscerò sempre per quella che è: l'unico posto dove tornerei a vivere; l'unico luogo, oltre a quello in cui sono nata, dove, finora, sono riuscita a sentirmi a casa; l'unica città che mi ha fatto dimenticare il mio anelito costante all'altrove.
Il tragitto in metro da Heathrow al centro è una zaffata di ricordi disordinati: i rientri solitari dalle vacanze, il percorso eccitato per andare a prendere qualcuno e quello triste e umido dopo gli addii, il ragazzo che avevo notato durante uno di quei rientri e che rividi casualmente in un organic food shop diversi giorni dopo, gli odori, il suono della lingua, lo scenario oltre i finestrini sporchi quando il treno riemerge in superficie, i colori macchiati di grigio, le razze di mezzo mondo in un vagone della metropolitana. Ed è come essere stata via solo per pochi giorni. Ogni volta così.

Le giornate scorrono via veloci tra le strade piene di vita e di richiami. 
E' come se...
C'è una porta. Al di là della porta c'è questa massa enorme ed informe che cerca di passarci attraverso ma la porta è troppo stretta e la massa resta intrappolata nella cornice della porta. Si agita, ribolle, si gonfia sempre più e non riesce a passare mai. Ecco. Le sensazioni si sono accumulate come una massa informe dietro gli occhi, in fondo alla gola, sotto la pelle. Blood makes noise canta Suzanne Vega e la tranquillità della superficie è solo dovuta all'incapacità di esprimere il tumulto. 
A tratti mi perdo dietro l'obiettivo della mia macchina fotografica. M'incantano l'imperscrutabilità delle vite estranee che mi passano accanto, la casuale e momentanea sovrapposizione di geometrie urbane, la varietà di scenari che si susseguono senza fine. Dimentico il tempo che scorre, dimentico la mia presenza fisica per inseguire un richiamo del sangue. 
Poi ritorno.
Ritorno di qua.
E non vorrei.


martedì 11 ottobre 2011

Riflessi

Mi raccontò che osservava sempre la gente che viaggiava con lui nel riflesso sui vetri del finestrino. Mi spiegò che lo stava facendo anche con me (che gli ero seduta di fronte nella metro di Amsterdam) ma io non me ne rendevo conto. Per questo aveva ridacchiato. Allora l'avevo guardato interrogativa e gli avevo chiesto: "What?"
Da allora lo faccio anch'io. Spesso osservo la gente nel riflesso sui vetri dei finestrini. Ho cominciato proprio con lui, con Thomas, lì ad Amsterdam. Era bellissimo. Lui, Thomas, era bellissimo. Uno dei ragazzi più belli che abbia mai conosciuto. Forse il più bello. Me n'ero innamorata a prima vista, tipo colpo di fulmine, di quelle cose che all'improvviso senti un gran caldo e ti scompare tutto intorno. Aveva i capelli color rame, lisci e lunghi, gli occhi grigi, il naso dritto, la mascella ben delineata, gli zigomi alti e i denti perfetti. Era molto alto e magro. Quando sorrideva sembrava che s'illuminasse tutto. E io m'illuminavo con lui.
Ogni tanto mi diceva in italiano, con un accento buffo: "Come sei bella!" Io lo trovavo bellissimo, lui mi diceva che ero bella ma non siamo andati oltre il perderci insieme, una mattina umida e fredda, tra le strade di Amsterdam, in due su una bicicletta (probabilmente rubata) che aveva comprato per pochi soldi da un tipo per strada. Ci perdemmo in silenzio. Ogni tanto ci guardavamo e ci sorridevamo ma non sentivamo il bisogno di parlare. Lo avevamo già fatto a lungo, prima di comprare la bicicletta, seduti nel tepore profumato di un vecchio caffè, davanti ad una cioccolata calda. Lì dentro, vicino ad un grande camino acceso, ci eravamo quasi confessati, raccontandoci un bel po' di cose personali, intime.
Così il silenzio non ci metteva a disagio. Anzi. Era rassicurante, liberatorio.
Sul tardi tornammo, in metro, al centro dove eravamo alloggiati, bicicletta al seguito. Alla fine di un intenso scambio di sguardi e sorrisi, lui disse semplicemente:
"So you're leaving tomorrow."
"Yes. And you're staying."
"Yes."
E poi arrivammo a destinazione.


venerdì 16 settembre 2011

Filia Maris

Ci sono di quei periodi che ti strozzano il respiro in gola. Sembra che la vita stessa ti sia contraria e resistere diventa faticoso. Di fronte solo muri alti e nessun varco visibile.

Mi metto in macchina. Vado a mare. 
Sola.
Arrivo a destinazione. Ci sono poche macchine parcheggiate nella stradina sterrata. M'incammino verso la cala.
Il mare riempie il mio sguardo all'improvviso. Lo so che sta per capitare, che il mare è lì, dietro quella curva ma, ogni volta che me lo ritrovo davanti, il cuore si spalanca per la meraviglia. 
Intenso blu. 
La sinfonia delle onde si fa più forte. 
Il vento. 
I miei passi solitari sul terreno caldo. 
Mi dirigo verso una delle estremità rocciose della cala. L'acqua m'incanta. Mentre cammino, lo sguardo mi vola sempre giù, oltre gli scogli, nel verde cristallino del mare. 
C'è poca gente, sia sulla spiaggetta, sia sugli scogli. Una decina di persone in tutto.
Mi fermo e poggio la borsa. 
Grazia dice che la diverte la rapidità con la quale mi levo i vestiti di dosso e sono pronta a tuffarmi in acqua. Ci penso mentre, maschera in mano, mi avvicino al bordo dello scoglio. Sorrido. (In effetti, gli altri mi sono sempre sembrati troppo lenti.)
Per qualche attimo fisso rapita il verde brillante sotto di me: è bellissimo. 
Poi muovo un passo oltre la roccia e mi lascio risucchiare dall'abbraccio liquido del mare. 
Riaffioro in superficie e sorrido ancora. Beatamente. Sono tornata in paradiso.
Mi calo la maschera sugli occhi, riempio d'aria i polmoni e vado ad incontrare il mondo sotto. 
Risalgo in superficie puntando verso la luce del sole: ogni volta ho come la sensazione di rinascere.
Nuoto, gioco con l'acqua, trattengo l'aria, la soffio via, galleggio, fluttuo, mi tuffo. Il mare mi brilla negli occhi e mi accende i sensi. 
Quando decido di uscire tirandomi su con la fune blu (che qualcuno ha opportunamente annodato ad uno scoglio) mi sento rigenerata. 
Mi perdo nell'orizzonte marino mentre il vento fresco asciuga la mia pelle bagnata. 
Sto bene. Per il momento io e la vita abbiamo ripreso a scorrere nella stessa direzione. 
Non ci sono più muri. 
Si sono sbriciolati nel mare.

martedì 13 settembre 2011

Nothing can separate us

Viaggiare è una predisposizione della mente. 
C'è gente che si sposta; viaggia, dice. In realtà, non si muove. La mente resta in uno stato passivo di assimilazione inerte di nuove informazioni sensoriali: viaggio sterile.
E c'è gente che viaggia anche quando il corpo non supera i confini del quotidiano vivere.

E poi c'è la musica.

Bianco e nero. Una donna piange in silenzio. E' bella. L'uomo con il cappello la guarda con occhi intensi. Soffre con lei. La prende per le spalle. Si guardano. Non dicono niente. Non smettono di guardarsi. Li osservo dalla finestra. Dei bambini che si rincorrono per strada ridendo mi distraggono. Bambini d'altri tempi: portano pantaloni corti, scarpe consumate che calpestano la strada polverosa e tasche bucate piene di fantasia. Scompaiono dietro un muro. Li seguo. Volto l'angolo. Dune di sabbia bollente. Il sole è una costellazione di lame di luce sfolgorante. La sabbia mi trattiene. Cado in ginocchio. Fa molto caldo. Guardo in alto. Il cielo è blu. Profondo. Il mare. Creature meravigliose mi nuotano attorno. Fluttuano leggere e mi sfiorano nella loro danza silenziosa. Salgono verso la superficie. Salgo con loro. Affioro. Ghiaccio. Una distesa di ghiaccio che si perde all'orizzonte. Al centro di questo deserto bianco un cancello enorme. Si apre piano. Passo. Un pozzo di roccia umida punta verso il cielo. E' buio qui dentro. La luce è in alto. Odore intenso di muschio e terra bagnata. Mi arrampico. Salto da un spuntone all'altro come se avessi le ali. Il punto di luce si allarga e diventa più brillante. Sono veloce. Sempre più veloce. La luce si fa accecante. Mi copro gli occhi con le mani. Bianco e nero.


domenica 11 settembre 2011

Coming

I am coming! I am coming!
I am coming through!
Coming across the divide to you
In this moment of unity
Feeling an ecstasy
To be here, to be now
At last I am free
Yes at last, at last
to be free of the past
and of a future that beckons me

I am coming! I am coming!
Here I am!
Neither a woman, nor a man
We are joined, we are one
With a human face
We are joined, we are one
With a human face
I am on earth
And I am in outer space
I'm being born and I am dying
(Sally Potter, Jimmy Sommerville & David Motion)




lunedì 29 agosto 2011

Del volo

Scivolo cautamente tra gli stretti tornanti delle Piccole Dolomiti Lucane alla guida della mia Panda. Salgo.
I picchi dei monti sono affascinanti ma il mio compagno di viaggio mi ricorda che devo tenere gli occhi sulla strada, non per aria. Tra una sbirciatina e l'altra riesco a scorgere un cavo sospeso che parte da uno dei picchi e attraversa l'azzurro del cielo scomparendo oltre la mia visuale. Non mi devo mica lanciare da lì (stretta allo stomaco)!
Arriviamo a Pietrapertosa, parcheggiamo e c'incamminiamo verso la biglietteria.
Pietrapertosa è un villaggio grazioso e suggestivo con le sue casette di pietra costruite direttamente a ridosso della roccia rugosa. Ma niente riesce a distrarmi troppo a lungo dal mio obiettivo della giornata: il volo dell'angelo.
E' ora di pranzo. Il mio volo è nel primo pomeriggio. Mangiamo un pezzo di focaccia e un po' d'uva, seduti su una panchina all'ombra di una casa in una piazzetta silenziosa. Fa molto caldo. Poi ci avviamo senza fretta verso la partenza del mio primo volo. Abbiamo tempo.
Saliamo ancora.
La piattaforma si trova subito sotto la rocca dov'è ubicato il castello di Pietrapertosa.
Gli scorci che vediamo sono già bellissimi mentre c'inerpichiamo pigramente.
E finalmente la piattaforma di lancio.
Ci fermiamo nei pressi della casetta di legno per la vestizione (imbracatura, cuffietta, casco, mascherina e carrucola) e guardiamo i temerari del turno precedente al mio che spiccano il volo verso Castelmezzano. Urla di eccitazione riecheggiano ad ogni partenza. Sorrido trepidante. Tra poco tocca a me.
"Cominciamo con il turno delle 15.30", chiama la ragazza dalla casetta.
Eccomi!
Equipaggiata di tutto punto, saluto il mio compagno che, causa vertigini, resterà ad aspettarmi a Pietrapertosa con i piedi ben piantati a terra, e seguo il resto del gruppo di aspiranti angeli sulla piattaforma. E' un gruppo allegro e ben assortito. Si chiacchiera e si scherza. Si scherza, soprattutto, per allentare la tensione (ché un po' di strizza ce l'abbiamo tutti). La linea di San Martino (quella che stiamo per percorrere in volo) ha un dislivello di 118 mt ed è lunga 1415 mt. Raggiungeremo una velocità massima di 110 Km/h.
Mentre aspetto il mio turno, mi guardo intorno e vedo di nuovo il cavo che avevo scorto arrivando in macchina: la linea per il ritorno. (Allora devo davvero lanciarmi da lì!)
Prima di me c'è una coppia giovane, lui e lei. Scherzano. Lei dice a lui: "Sei arrabbiato con me per averti trascinato qui?" Lui: "Ne riparliamo quando arriviamo dall'altra parte." Risate.
Lui parte. Tocca a lei. Sale in piattaforma ed è un po' nervosa. Chiacchiera con l'operatore che la sta agganciando al cavo d'acciaio e che le chiede: "Sei voluta venire tu qua?" E lei: "Sì... ma non me lo ricordo più perché ci sono voluta venire!" Ridiamo ancora. E parte anche lei. La vedo scivolare via mentre mi avvicino all'operatore. Lui mi spiega come posizionarmi. Aggancia i moschettoni della mia imbracatura al cavo d'acciaio e mi fa abbandonare pancia in avanti. Quindi sollevo i piedi e li poggio, facendo pressione, su una fune che mi permette di restare stesa senza fatica e mi fa scivolare comodamente in posizione. Le braccia vanno tenute all'indietro, le mani afferrate alle fasce dell'imbracatura. Sono pronta.
L'operatore mi dice cose rassicuranti: "Non avvertirai vuoti d'aria. E' un volo panoramico. Devi solo rilassarti e godertela. Stai tranquilla." Gli rispondo che sono tranquilla. (Sono tranquilla ma ho il cuore che mi batte come un tamburo impazzito!) Quindi gli dico nome e peso. Lui mi attacca un triangolo di tela gialla in cima all'imbracatura, come una piccola vela, e comunica via radio alla piattaforma d'arrivo che sto per partire. Poi stacca un moschettone davanti, mi dice "Buono volo"!, io rispondo "Grazie!", lui stacca un secondo moschettone dietro e... VIA! 
La roccia sotto la piattaforma scompare all'improvviso, acquisto immediatamente velocità e sotto di me si apre la valle, spettacolo improvviso e straordinario. Trattengo a stento un grido di eccitazione. Il vento mi fischia nelle orecchie e mi scivola fresco sulle braccia nude. Mi sento completamente libera! E' fantastico, dico. E' fantastico, ripeto. A nessuno. Perché là in alto ci sono solo io. Il volo è breve. Dura circa 70 secondi. In un niente sono arrivata dall'altra parte. Scendo, vado a levare casco e imbracatura (mi lasciano tenere la cuffia per i capelli e la mascherina per gli occhi) e corro a prendere la navetta per il volo del ritorno, l'adrenalina a mille. Gli altri sono eccitati quanto me: un'esperienza indescrivibile.
La navetta che ci porta verso l'altra piattaforma di lancio si ferma nei pressi di una chiesa. Da lì ci aspetta una ripida passeggiata di circa 20 minuti. Durante il tragitto in salita stringo amicizia con Paolo. Anche lui vola solo perché la sua ragazza ha preferito non staccare i piedi da terra. Lui, però, sta per effettuare il suo primo volo (quello d'andata) e non sa ancora cosa l'aspetta. La linea Peschiera ha un dislivello maggiore (130 mt) rispetto all'altra linea e si arrivano a toccare 120 Km/h su una distanza di 1452 mt. E' sicuramente un volo più spettacolare. Anche il panorama è più verde e selvaggio. La sensazione è proprio quella di lanciarsi nel vuoto dal picco di un monte, come un'aquila.
Mentre saliamo faticosamente lungo il sentiero sterrato e polveroso, comincia a piovigginare.
Arriviamo in cima e respiriamo a pieni polmoni. C'è chi afferma che, piuttosto che rifare la strada al contrario per scendere, si getterebbe anche senza cavo.
Procediamo di nuovo alla vestizione e i primi partono per il ritorno. Io sono quinta. Partono i primi tre. Poi la pioggia si fa più forte e i voli vengono temporaneamente sospesi aspettando che smetta. Guardo oltre il bordo della piattaforma. Che volo! Nonostante abbia ormai ricevuto il mio battesimo dell'aria, la trepidazione è forte.
La pioggia diminuisce e poi smette. Riprendiamo. Tocca a Paolo. Poi a me.
Paolo parte.
Poi io.
"Buon volo!"
"Grazie!"
Il moschettone si sgancia.
La roccia scompare all'improvviso.
Velocità.
Volo.
E questa volta urlo.
Eccitazione.
Gioia.
Adrenalina.
Senso intenso di libertà.
Mi sento uccello.
Mi sento vento.
Sorrido.
Che meraviglia!


Per maggiori informazioni: http://www.volodellangelo.com/