sabato 18 ottobre 2014

Delle cozze

Più che una ferita, ho una voragine. Nella testa e nel petto. Il secondo cervello s'è ammalato e basta.
Che cosa ho fatto della mia vita? Come ho fatto a sprecarla così stupidamente? Per cosa, poi? Per un'idea, alla fine. Falsa come una banconota da 15 euro. Un'illusione totale. 
Uno dei rischi dell'avere una spiccata capacità immaginifica è quello che si possa arrivare a dipingere splendidi scenari - mari e monti e valli rigogliose e ruscelli e cielo limpido - a nascondere una distesa di spazzatura. Perfino la puzza diventa un odore sopportabile. 
Poi, il proiettore che avevo nella testa s'è inceppato. Ha cominciato a funzionare a intermittenza. Alla fine, s'è spento completamente. E la realtà era lì ad aspettarmi. La spazzatura. Ma quanta! E quante bugie! Dio, la massa informe di bugie! Come vermi dall'aspetto orrendo a rotolarsi nella melma. 
Dov'ero io mentre camminavo in questa palude appiccicosa e fetida? Come ho fatto a non accorgermene? Come ho potuto sacrificare i miei figli così? E la mia voglia di altro da qui? 
Hanno pugnalato a morte la mia innata fiducia che, alla fine, tutto andrà per il meglio, che ci si possa fidare degli altri. Mi hanno succhiato l'anima e mi hanno gettato via come una cozza vuota. Senza neanche un "grazie" o un "mi dispiace". Perché, tanto, sono cose che capitano. 
Cose che capitano, dice.
Cose che capitano, un cazzo! 
La cattiveria non capita. La disonestà non capita. L'ingratitudine non capita. L'idiozia affettiva non capita. L'egoismo non capita. 

Ma io? Dov'ero io? Perché ci ho messo tanto ad aprire questi fottutissimi occhi azzurri?

Pensavo di essere riuscita a perdonarmi. 
Invece no.



venerdì 17 ottobre 2014

Della scusa per aprire parentesi

Venerdì scorso ho aderito allo sciopero e ho saltato la mia doppia lezione in prima media. Ieri mattina ho usufruito di un'ora di recupero e ho saltato di nuovo la lezione di un'ora nella stessa prima (ovviamente, non di proposito). La collega che mi ha sostituito ieri mi ha riferito che i ragazzi erano molto contrariati dalla mia assenza e mi reclamavano. Stamattina sono arrivata a scuola e le ragazzine mi sono corse incontro sul portone - tutte gridolini e sorrisi - per salutarmi. In classe M. mi ha rinfacciato di averli traditi perché non sono andata da loro per due settimane! Le ho fatto notare che la settimana era una e corrispondeva a due sole lezioni. Poi ho spiegato perché mi sono assentata e le motivazioni della mia adesione allo sciopero (anche se c'è qualche collega che ritiene che sia tempo perso, ché sono troppo piccoli per capire). 
Succede di frequente che, discutendo di un argomento, si arrivi a parlare di un altro che ha scarsa attinenza con il primo o con l'inglese. Le mie parentesi, cioè. Quei momenti durante i quali facciamo pratica di dialogo e confronto, dove esercitiamo il senso critico, impariamo a chiedere i nostri perché e proviamo a dare risposte ragionate e sensate; dove si ascolta e si aspetta il proprio turno per parlare. I momenti durante i quali (ci) si racconta. Io e loro. La parte del mio lavoro che preferisco. 
E così siamo finiti a parlare di migranti. È partito tutto da un commento ingenuo, fatto in maniera superficiale e, perciò, potenzialmente pericoloso. Nel caso specifico, quel commento aveva già ferito una ragazzina di origini marocchine. Di due ore di lezione, una l'abbiamo dedicata a questo confronto. Non è stato semplice gestire la discussione. Dovevo stare attenta a che la ragazzina non venisse ferita ancora/troppo da quello che i suoi compagni dicevano senza troppa reticenza ma, allo stesso tempo, era necessario che le parole venissero dette per poter chiedere i giusti perché, stimolare la riflessione e instillare il dubbio. E mi sono preoccupata un attimo quando ho chiesto: "Ma allora che facciamo con A. ed E. (gli unici due alunni con origini non italiane della classe)? Li cacciamo dall'Italia?". Mi sono preoccupata perché mi guardavano tutti in silenzio e nessuno rispondeva. Ho dovuto ripetere la domanda tre volte prima che mi rispondessero di no, che volevano che i loro compagni restassero. Eppure sono convinta che qualcuno di loro l'abbia detto solo perché trascinato dal gruppo. Mi ha molto colpito una ragazzina che, alla domanda che ponevo a una sua compagna, "Ma tu sei sicura che quest'informazione sia vera e corretta? Chi te l'ha detto?", s'è intromessa affermando con molta decisione: "Ma ce lo dicono i nostri genitori!" Altrimenti detto, se lo dicono loro, allora è vero.
Ho lasciato che A. ed E. raccontassero brevemente i loro vissuti, che spiegassero perché sono venuti in Italia. È stato bello ascoltarli.
Poi A., la ragazzina marocchina, durante l'intervallo, è venuta a raccontarmi in privato che anche alle elementari veniva spesso presa di mira dai commenti poco gentili dei compagni e (ha aggiunto con mio profondo orrore) anche di qualche maestra.

Durante la prima ora di lezione in una seconda, invece, la parentesi si è aperta a proposito dell'enorme patrimonio culturale, artistico e paesaggistico che abbiamo in Italia e che, invece di essere trattato come una delle risorse più importanti della nostra nazione, viene puntualmente ignorato e/o dimenticato. 

L'ultima ora in terza, infine, l'ho aperta con una bella discussione sul fumo, visto che becco sempre un paio di alunni a fumare prima dell'inizio delle lezioni. Non voleva essere la solita paternale moralistica sul fatto che fumare fa male. So perfettamente che non avrebbe sortito nessun effetto. Lo sanno già, che fa male. Ci siamo messi a chiacchierare di questa che per una ragazza, A., in particolare, è già una dipendenza. Chiacchierare con molta fatica. Ché questi ragazzi di terza non sono proprio abituati al dialogo e all'ascolto. L'unica modalità di lezione che concepiscono (= restano in educato silenzio e ascoltano - o fanno finta) è la lezione frontale. Se si chiede loro un minimo di partecipazione, è la fine! Ma comincerò dalla fine. Credo sia davvero necessario imparare ad ascoltarsi e a intervenire in forma corretta alle discussioni in classe. E ovunque. 
Alla fine dell'ora, mentre si mettevano in fila per uscire, ho detto ad A.: "Però, almeno, prova a fumare di meno..." E lei è venuta ad abbracciarmi. È stato un gesto spontaneo e tenerissimo che mi ha molto colpita.

E poi sono tornata a casa. Ero stanchissima. Guidavo e riascoltavo nella mia testa le conversazioni avute oggi con i ragazzi.
Ecco: adesso io non so veramente se tutto questo dialogare e confrontarsi avrà un effetto positivo su di loro oppure no, però comincio a credere che, per me, insegnare inglese sia solo una scusa per aprire parentesi.




lunedì 13 ottobre 2014

Delle discoteche

Sto per passare sotto la doccia prima di entrare in piscina. Nella corsia che s'intravede dall'altra parte della doccia c'è un tizio che nuota. Arriva a bordo vasca, si ferma, si toglie gli occhialini e mi guarda. Mi guarda anche mentre passo tra i getti d'acqua della doccia automatica.
Che cavolo guardi?, penso.
Occupo la corsia numero 5, due corsie più su rispetto a quella dove nuota il tizio. Nelle corsie in mezzo non c'è nessuno.
Comincio a nuotare.
Ogni volta che mi fermo a bordo vasca e anche il tizio s'è fermato, mi accorgo che guarda nella mia direzione. Allora comincio a guardarlo anch'io, abbastanza perplessa: Ma che vuoi?
In realtà, ho l'impressione di averlo già visto da qualche parte. O mi ricorda qualcun altro. Poi penso pure che, in fondo, è molto carino.
A un certo punto sembra che stia per dirmi qualcosa. Infatti, la dice: "Ma qui ce l'hanno l'ossigeno?"
Va bene, ho capito che voleva essere una battuta spiritosa ma, a me, non sembra molto divertente e non riesco neanche a fingere che lo sia. Perciò, "Eh?", dico. 
Lui ripete convinto la fesseria di prima, spiegandomela (peggio ancora!). Mi sforzo di piegare gli angoli della bocca verso l'alto e di emettere un suono che esprima divertimento (non so con quale risultato).
Per levarmi dall'imbarazzo, chiedo: "Ma ci siamo già visti da qualche parte?"
"Non so", fa lui. "Sei di P.?"
"No."
"Di dove sei?"
"Di L. Tu sei di P.?"
"Sì."
"Va be'", concludo. "Forse è solo un'impressione o mi ricordi qualcun altro che conosco."
Allora lui s'affretta ad aggiungere qualcosa e dice 'la cosa sbagliata': "Forse ci siamo visti in discoteca..." All'improvviso, muri e saracinesche piombano dall'alto a dividerci, uno dopo l'altra, in rapida successione. Sbam! Sbadabam! Bam! In discoteca!? In discotecaaaaaa!? 
"Non credo proprio!", commento. Però l'espressione del mio viso deve essere molto più eloquente delle mie parole perché il tipo cerca di recuperare mentre io mi sto già sistemando gli occhialini per riprendere a nuotare: "O forse a teatro?"
A teatro? Lo guardo di nuovo, perplessa. Lo immagino che esce da teatro dopo aver assistito a uno spettacolo di prosa, commentando la performance con degli amici. Poi si mette in macchina e va a concludere la serata in discoteca.
"No, non penso.", dico. "Mi sono sbagliata." Gli sorrido, poi mi rimetto a nuotare. E lo ignoro.
Lo ignoro anche quando si issa a bordo vasca e resta là, in piedi, per un lungo momento, a far bella mostra di sé e del suo corpo muscoloso e molto ben proporzionato.
Vai, bello! Vai a fare lo splendido in discoteca, vai.



giovedì 9 ottobre 2014

Del mio lavoro e degli occhi che brillano

Ho dato per scontato che lo sapessero già. Sono in terza media. 
"Sicuramente la professoressa che avevate gli anni scorsi ve l'avrà già detto..." 
Invece non lo sapevano. L'insegnante in questione, non solo non gliel'aveva detto spontaneamente, ma quando uno di loro (un casciarone patentato, certo, ma che c'entra?) aveva provato a chiedere lumi (Che significa 'ES' di fianco all'esercizio?), lei (a quanto mi hanno riferito) ha risposto in maniera inopportuna (Ma pensa agli affari tuoi!). Magari il dialogo non si sarà svolto esattamente così, però resta il fatto che i ragazzi non avevano consapevolezza di un dettaglio - certo non fondamentale, ma - utile per sfruttare al meglio lo strumento 'libro di testo' che hanno in dotazione. Una ragazza, pur di darsi una spiegazione che avesse un senso, aveva ipotizzato che significasse 'Esercizio'. 
Significa 'Esame di Stato', ho spiegato. E ho spiegato anche perché c'era quella sigla là, di fianco a quel particolare esercizio. Subito, un altro, evidentemente confortato dalla mia disponibilità a soddisfare le loro curiosità, mi ha chiesto: "E la 'K', invece, che significa?"

Alcuni colleghi non li capisco. Veramente.

Il primo giorno di lezione ho provato a chiedere in questa stessa classe a quanti piacesse l'inglese (lo faccio sempre nelle seconde e nelle terze per sondare il livello di motivazione generale e capire quanto dovrò impegnarmi per abbattere gli eventuali filtri emotivi presenti). 
Nessuno ha alzato la mano. Si guardavano tra loro con lo sguardo tra l'imbarazzato e il divertito.
'Azz!, ho pensato. Qui c'è da rimboccarsi le maniche forte. 

Non è una cosa che mi scoraggi particolarmente. Mi ci sono abituata. A lottare contro la demotivazione. La lotta suprema dell'insegnante. Dare un senso a quello che facciamo insieme in classe. Dare un senso a loro, prima di tutto. Se ha un senso per loro, allora ha un senso anche per me. 
Dalla mia, ho la passione sincera per la disciplina che insegno e per il lavoro che svolgo. A volte non è sufficiente. Ma io parto sempre convintissima. Ce la farò. Ce la faremo.

L'altro giorno un mio amico ha condiviso un video della serie dei TED Talks su facebook. Benjamin Zander (un famoso direttore d'orchestra) parla di musica classica. Quello che dice è meraviglioso e si può applicare a qualsiasi aspetto della nostra vita, non solo alla musica.
Ad un certo punto, Zander dichiara che, alla fine del suo intervento, tutti quelli che lo stanno ascoltando apprezzeranno la musica classica, compresi anche quelli convinti di essere negati per la musica o convinti di non capire quella classica.
Poi commenta:
Now, you notice that there is not the slightest doubt in my mind that this is going to work if you look at my face, right? It's one of the characteristics of a leader that he not doubt for one moment the capacity of the people he's leading to realize whatever he's dreaming. Imagine if Martin Luther King had said, "I have a dream. Of course, I'm not sure they'll be up to it."
[Avrete notato che il mio viso non tradisce il minimo dubbio a proposito del fatto che questa cosa funzionerà, giusto? E' una delle caratteristiche di un leader il non dubitare neanche per un momento della capacità di coloro che sta guidando di realizzare qualunque cosa stia sognando. Immaginate se Martin Luther King avesse detto, "Io ho un sogno. Ovviamente non sono sicuro che saremo in grado di farlo diventare realtà."]
Credo funzioni allo stesso modo con l'insegnamento. L'insegnante non può avere dubbi a proposito del fatto che i suoi studenti riescano. Deve credere in loro, prima di loro. E non arrendersi mai. Fino alla fine. È sfiancate e spesso anche frustrante ma io credo che non si possa prescindere da questo assunto. Se ci arrendiamo noi per primi, se non crediamo veramente nei nostri ragazzi e nelle loro possibilità, che ci stiamo a fare in classe?

E poi c'è quest'altra cosa che dice Benjamin Zander e che mi ha fatto venire le lacrime agli occhi per la bellezza autentica di quello che significa.
I realized my job was to awaken possibility in other people. And of course, I wanted to know whether I was doing that. And you know how you find out? You look at their eyes. If their eyes are shining, you know you're doing it. (...) If the eyes are not shining, you get to ask a question. And this is the question: who am I being, that my players' eyes are not shining? (...) That's a totally different world.
[Ho capito che il mio lavoro consisteva nello risvegliare possibilità nelle altre persone. E ovviamente volevo sapere se lo stavo facendo. E sapete come scoprirlo? Guardate i loro occhi. Se i loro occhi brillano, sapete che lo state facendo. (...) Se gli occhi non brillano, allora dovete farvi una domanda. E la domanda è questa: chi sono io in questo momento, ché gli occhi dei miei musicisti non brillano? (...) Questo è un mondo completamente diverso.]
Ma perché si accenda una luce negli occhi di chi ci sta seguendo, credo che sia necessario averla già accesa nei nostri, di occhi, una luce.

Credere in quello che stiamo facendo. Essere noi stessi. Essere diversi. Far brillare gli occhi.
E rispondere alle domande che ci vengono poste. 
As simple as that.