venerdì 19 aprile 2013

Del non voler riconoscere l'ovvio

Quand'ero ragazzina mamma mi diceva spesso che ero lo spirito della contraddizione. In realtà, istintivamente facevo la mia buona pratica di pensiero autonomo e stavo lavorando alacremente alla costruzione della mia identità. (Ok, più per contrapposizioni che per similitudini, lo ammetto.) 
Era un esercizio che richiedeva una certa religiosa perseveranza perché desse i suoi frutti. Anche perché molto spesso, a fare i capacchioni, ci si rende antipatici e si resta isolati. Ci si può sentire inadeguati e, nei giorni no, pure sbagliati. 
Di buono c'è che ho finito per sentirmi sempre più libera, leggera e non vincolata a nulla se non a quei pochi principi fondamentali che mi sono data consapevolmente come base etica della mia esistenza. Che è il motivo per il quale non mi riconosco in nessuna religione e in nessun partito. Ed è anche il motivo per il quale, per esempio, non potrei mai servire in un corpo armato. Aborro l'azione compiuta per eseguire un ordine, l'azione non pienamente o per nulla consapevole. Ho deciso definitivamente di dare le dimissioni dall'aeroporto dove lavoravo quando, una volta, un mio superiore mi urlò che non dovevo pensare ma fare solo quello che mi diceva lui. 
Non mi piace essere etichettata, catalogata, incasellata e non mi piace la partigianeria cieca. So sempre da che parte stare ma non difenderò mai l'indifendibile per partito preso o perché "è così che vanno le cose" o perché "è sempre stato così". 
E sono profondamente convinta che rifiutarsi di aprire gli occhi e riconoscere l'ovvio sia una pratica che nuoce gravemente all'umanità intera.


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