mercoledì 6 febbraio 2013

Delle maschere

No, il carnevale non c'entra. C'entra il tragitto casa-scuola, scuola-casa. Una cinquantina di chilometri (tra andata e ritorno) durante i quali i pensieri si rincorrono liberamente nella mia testa, risvegliando, di tanto in tanto, ricordi che giacevano immobili nelle pieghe del tempo, ricostruendo percorsi, illuminando angoli bui.

Io non mi trucco, cioè non uso tutte quelle cosette curiose e divertenti (e costose) alle quali le donne fanno spesso ricorso per farsi belle. Ci ho provato anch'io, a truccarmi. Diverse volte. Ma non funziona. Non dura.
Innanzitutto, non lo so fare. In effetti non mi ci sono mai applicata veramente e, quindi, non ho mai imparato bene. Riuscire a tirare una linea di matita dritta sulla palpebra superiore mi sembra fantascienza. Ancora oggi, vedo esposti nei negozi aggeggi, polveri, creme e fluidi di cui ignoro le modalità di utilizzo. Ogni tanto mi sono lasciata affascinare da questi giochi colorati e ho comprato una matita per gli occhi o un rossetto o uno smalto per le unghie. Ma poi li ho lasciati scadere dopo averli usati un paio di volte o poco più. 
Eppure quando vedo quelle donne che, in pubblico, tirano fuori dalle borse i loro trucchi e cominciano a ridisegnarsi il viso con disinvolta precisione e neanche un accenno d'imbarazzo, provo sempre una punta d'ammirazione per loro, come quella che si prova per chi padroneggia un'arte che vorremmo fosse nostra e invece ci è preclusa. (E, ogni volta, ho questa sensazione di appartenere a un genere differente, un genere indefinito che assomiglia solo vagamente a quello femminile.) 

Quando ero piccola mi piacevano tanto i trucchi di mamma. Ci giocavo spesso, di nascosto, nel bagno di casa. Avevo una predilezione per i rossetti e gli smalti che erano rossi, rosa, colori accesi, vividi, fatti di materia morbida, voluttuosa. Siccome non potevo metterli addosso perché mamma se ne sarebbe sicuramente accorta e si sarebbe arrabbiata, li spalmavo sul termosifone. Tante piccole linguette colorate sul bianco freddo del calorifero. Mamma si arrabbiava lo stesso, ovviamente, ma se ne accorgeva più tardi.

Elliott Erwitt, Wilmington, NC, 1950
Poi, quando ho compiuto 16 anni, le mie compagne di classe mi hanno regalato una di quelle che chiamavano trousse (mica lo so se fosse il nome corretto o se si chiamano ancora così). Era un'astuccio rotondo, rosa confetto, abbastanza grande. All'interno c'era uno specchietto e due piani di make up tra ombretti, fard, matite colorate, rossetti, pennelli e spugnette. La tavolozza di un pittore. Quell'anno lì cominciai a sperimentare seriamente l'arte del maquillage sulla mia pelle. Tutte le mie amiche lo facevano. Eppure i risultati non mi soddisfacevano. Mi entusiasmavano i colori, me li mettevo in faccia, mi guardavo allo specchio e... non mi riconoscevo, non mi piacevo. Mi costringevo a tenerli addosso perché le altre mi dicevano che stavo bene, perché volevo essere bella anch'io, perché volevo che i ragazzi mi trovassero carina. Ma non ero troppo convinta e, tra le altre cose, mi sentivo sempre la faccia sporca.

Poi mi sono innamorata. Di uno che vedevo ogni mattina alla fermata del bus per la scuola. Uno che, come vuole la consolidata tradizione degli adolescenti sfigati e impopolari ai quali appartenevo, non mi si filava manco di striscio. 
Allora, la mattina mi preparavo per uscire di casa e ricordo che mettevo questo rossetto rosa molto lucido. Poi arrivavo alla fermata e vedevo il tizio. Il tizio mi ignorava sempre, del tipo che non soffermava lo sguardo sulla mia faccia neanche per un secondo, neanche per sbaglio, come fossi invisibile, e io pensavo al mio rossetto e mi sentivo un'imbecille integrale e me lo levavo con il dorso della mano. Ogni mattina così. Qualche volta me lo levavo ancor prima che il tizio si facesse vedere. Perché? Perché era come se, nella speranza di piacere, avessi nascosto la mia vera faccia; come se cercassi di rendermi diversa da me; come se il mio viso non andasse bene così com'era. E non serviva ugualmente a nulla. Si trattava solo di un rossetto, lo so. Una banalità, in fondo. Ma le mie sensazioni amplificate e assolute di adolescente erano chiare. Me le ricordo ancora adesso. Pensavo che essere rifiutata per quella che non ero fosse molto più umiliante dell'essere rifiutata per quella che ero in realtà. 
Alla fine ho smesso di mettere il rossetto la mattina prima di andare a scuola. Mi sarei trovata un ragazzo al quale sarei piaciuta senza rossetto.
Lentamente ho anche smesso di aprire e usare la trousse che mi avevano regalato.
Poi, all'università, mi è passata anche la curiosità di provare, di pasticciare, di sperimentare sulla mia faccia, una volta ogni tanto. Perché la mia faccia ero io e avevo intenzione di mostrarla nuda e autentica, pulita e senza abbellimenti. Una dichiarazione di trasparenza esistenziale.

Oggi, a volte, quando sono di buon umore e ho voglia di giocare con la mia immagine, provo a tirare quella disgraziata linea scura sulle palpebre degli occhi, sfidando la fantascienza. Oppure, quando qualche volta mi viene voglia di colorarmi la faccia, mi faccio aiutare da chi lo sa fare e chiedo sempre di andarci piano. Un trucco leggero, si dice. Una maschera che non sembri una maschera. Ma, per quanto piano vadano e per quanto leggero il trucco sia, finisco sempre per sentirmi la faccia sporca, guardarmi allo specchio e vedere il viso di una donna che non sono io.

[Al suo truccatore] "Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. Ci ho messo una vita a farmele venire."
Anna Magnani



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