martedì 15 gennaio 2013

Della quiete pericolosa

Era il 2003. Mi pare. 
Frequentavo il secondo anno della SSIS (Scuola di Specializzazione per la formazione degli Insegnanti di Secondo Grado). Corso di Didattica della Letteratura (straniera). Lo teneva il prof. Mugnolo - o l'ottavo nano, come lo chiamavamo io e qualche altra corsista. Non era molto alto, in effetti, ma era per via del suo cognome che lo chiamavamo così. Però avremmo potuto pure chiamarlo Brontolo ché non lo vedevamo sorridere mai. Serio, professionale, competente, colto, distaccato, esigente. Temibile. 
Nell'ultima parte del corso, suddivisi in gruppi di lavoro, avevamo scelto un'opera letteraria di nostro gradimento e, sulla base di quanto appreso durante il corso, avremmo dovuto ipotizzare una presentazione della stessa opera a una classe di studenti (superiori, evidentemente, ché alle medie non ti metti a insegnare letteratura straniera). 
Su mia proposta, il gruppo del quale facevo parte ha scelto di lavorare sul racconto della scrittrice inglese Angela Carter, The Bloody Chamber (La Camera di Sangue), rivisitazione sensuale e sovversiva della fiaba di Barbablù. 
Alla fine del lavoro, ogni gruppo sarebbe dovuto salire in cattedra e impostare la sua lezione. Questa comunicazione, però, ci è stata fatta solo alla fine e il professore ha preteso che individuassimo subito una persona all'interno del gruppo per cominciare. Nel mio gruppo, sono stata praticamene costretta a immolarmi alla causa: "Il racconto l'hai scelto tu! Lo conosci meglio di noi. Vai tu!"
Primo gruppo a cominciare? Il nostro, ovviamente. Non avevo avuto nemmeno il tempo di rivedere i miei appunti. 
Ho preso la mia vecchia edizione Feltrinelli con la raccolta della Carter (Lire 10.000, il prezzo di copertina) e mi sono diretta verso la pedana rialzata dell'aula universitaria della Facoltà di Lingue, accompagnata da un silenzio scricchiolante.
Il temibile professor Mugnolo mi aspettava in cattedra. Ho preso posto a fianco a lui. Eravamo così vicini che distinguevo perfettamente i grani di forfora sul collo della sua giacca. Davanti e sotto di me, gli occhi dei miei colleghi di corso mi osservavano e aspettavano che cominciassi.
Evidentemente, il serio e temibile prof. Mugnolo si rendeva conto che la situazione poteva risultare un tantino emozionante per chi, come me, saliva per la prima volta dall'"altra" parte di una cattedra universitaria e ha cercato di mettermi a mio agio a modo suo: "Ecco! Adesso lei cominci tranquilla. Si rivolga ai suoi colleghi. Io, magari, se lo ritengo opportuno, la interromperò per farle qualche domanda e metterla in difficoltà, sperando di non diventarle antipatico dopo..." 
Mi sono sentita rispondere con sfrontata spontaneità: "Non c'è problema. Tanto mi sta già antipatico." E, incredibilmente, il serio e temibile prof. Mugnolo s'è messo a ridere, insieme a tutta l'aula. Mi ricordo perfettamente il suo ghigno sussultante. Cercava di contenersi ma non gli è riuscito troppo bene, rivelando a tutti che il serio e temibile prof. Mugnolo era dotato di senso dell'ironia e sapeva ridere.
E ho cominciato la mia lezione. 
Io, che mi emoziono in maniera incontrollabile quando sono al centro dell'attenzione, lì sopra, invece, mi sentivo calma e sicura. Aprivo il libro della Carter per leggere i passi che mi servivano a supportare quanto affermavo, guardavo fiduciosa il mio uditorio e percepivo lo sguardo concentrato del professore al mio fianco che seguiva il mio discorso. Era una sensazione inaspettatamente piacevole stare lì ad argomentare di temi che mi appassionavano, con tutte quelle persone che stavano ad ascoltarmi.
Poi, un buco improvviso. Non riuscivo a trovare la parola giusta per completare un concetto. Mi sono fermata. 
Silenzio. 
Ho avvertito lo sguardo interrogativo del professore che si voltava verso di me. I miei colleghi mi fissavano e aspettavano.
E la cosa strana è stata questa: non sono andata nel panico, non mi sono allarmata, non mi sono imbarazzata, la mia mente non annaspava freneticamente alla ricerca della parola sfuggevole. Invece, ho assaporato quell'attimo sospeso come quando d'estate si succhia un ghiacciolo in una torrida giornata estiva. 
In quella dilatazione apparente del tempo, mi sono sentita potente e una. Avrei potuto prolungare il silenzio senza scompormi. Avrei messo a disagio chi mi stava ascoltando. Avrei causato un certo sconcerto. Avrei potuto riprendere a parlare all'improvviso, l'attenzione di tutti accentuata dal mio protratto silenzio, cambiando argomento, dicendo qualcosa di folle, provocatorio, volgare. Mi sarei potuta mettere a cantare. Sarei potuta salire in piedi sulla cattedra e mettermi a ballare il tip tap. 
Quel vuoto, quella lunga pausa non premeditata mi sembrava l'anticamera di numerose alternative, tutte irrazionali e praticabili, il vestibolo dell'improbabile che diventa possibile, dell'inaudito che diventa fatto. Tutti quegli occhi aspettavano solo che io dicessi o facessi qualcosa. Loro erano i miei testimoni...
Poi, nella quiete pericolosa della mia mente, è apparsa la parola che mancava. L'ho detta a voce alta e il tempo ha ripreso a scorrere nella sua banale convenzionalità.
Quando ho finito e sono scesa dalla cattedra, il fatto sensazionale registrato, comunque, era questo: ero riuscita a far ridere il serio e temibile prof. Mugnolo.

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