venerdì 21 marzo 2014

Della pretesa gentilezza

Oggi, poco prima di pranzo, mi è capitata una cosa e m'è venuto subito in mente un passo del romanzo Non avevo capito niente di Diego De Silva. Questo qua.

La fila riprende a scorrere, e di lì a poco scopro che la causa del blocco pedonale è costituita da un cafone di merda che manda messaggini col cellulare, pressoché coricato su uno scooter che ha pensato bene di parcheggiare sul marciapiede, in perfetta corrispondenza del balcone sovrastante.
Che ampiezza avrà il marciapiede di una strada cittadina secondaria, un metro e mezzo, largheggiando? Metteteci sopra un obeso motorino di ultima generazione (quelli coi sellini che sembrano poltrone Frau e tutti gli ammennicoli di contorno) e fate un po' il conto di quanto resta. Chiaramente, nei dintorni non c'è un vigile manco a telefonargli. Capirai, poi, se ci fosse.
(...) 
Ma l'aspetto più deprimente di quest'oltraggio al pedone è che nessuno dice niente. La gente sbuffa, magari impreca a denti stretti, gira intorno all'installazione abusiva e se ne va, lasciandosi l'affronto alle spalle.
(...)
Il punto è che le provocazioni puoi rifiutarti di accettarle. Solo che questo tipo di rifiuto si paga con l'autostima. E il pagamento ha questo di caratteristico: sembra di spendere poco, ma poi ti ritrovi strozzato dagli interessi.
E allora, volete sapere che c'è di nuovo? Che io, stavolta, non pago. Non lo faccio il giro dell'ostacolo. Vaffanculo.

Dice, come mai t'è venuto in mente questo passo qua?
Rispondo.

Esco di casa e sto per entrare in macchina, la mia macchina, parcheggiata correttamente e civilmente nelle sue brave strisce bianche sotto casa. È l'ultima della fila. Davanti c'è un'altra vettura, dietro il marciapiede. 
Mentre mi avvicino alla macchina, ne arriva un'altra che parcheggia in doppia fila, di fianco alla mia, un poco più avanti. La tizia alla guida, una tizia giovane, con i capelli raccolti in una lunga coda, esce dalla sua auto e non mi degna di uno sguardo, nonostante sia ovvio che io stia per andar via. 
Richiamo la sua attenzione: "Scusi, dovrei uscire..." E indico la mia auto. Quella la guarda, mi guarda e mi risponde: "Non riesce ad uscire andando in retromarcia?" 
"No", le dico decisamente interdetta, "dovrei salire sul marciapiede!"
Allora la tizia sbuffa vistosamente, solleva le sopracciglia come a dire, "Ma guarda questa!", rientra in macchina borbottando e si fa più avanti di una manciata di centimetri appena. Praticamente come se non si fosse spostata. Esce di nuovo dalla sua auto, si dirige verso l'asilo nido sotto casa e, sempre con un'espressione di fastidio stampata sulla faccia, mi dice: "Certo che un po' di gentilezza non farebbe male ogni tanto!"
"Infatti!", concordo. "Sarebbe potuta andare avanti un altro po'. Così non è cambiato assolutamente nulla rispetto a prima!"
Ma lei m'ignora alla grande e prosegue per i fatti suoi.
Io, per poter uscire dal parcheggio, son dovuta salire sul marciapiede. 

Qualcuno potrebbe spiegare alla gentilissima e civilissima signora che le sue necessità non hanno la priorità su quelle degli altri, che parcheggiare in doppia fila è irregolare e che tollerare un atto d'inciviltà non si chiama gentilezza?
Il mio fegato, prima o poi, emigrerà dal mio corpo e chiederà asilo politico nel tronco di un albero.


domenica 16 marzo 2014

Dei sogni a prescindere dalla cena della sera prima

Quello che segue è un sogno che ho fatto tra la notte del 23 e del 24 settembre 2000.

Sono in un giardino rigoglioso e umido. C'è poca luce. Il senso è quello di una zona costantemente crepuscolare e con il cielo coperto, come sul punto che scoppi un temporale. Lavoro con altre persone. Per la maggior parte sono giovani e sono donne, come me. Ma io non mi sento coinvolta, anzi, quasi emarginata, guardata con diffidenza e me ne dispiace. Lavoro da sola, quindi. Mi dedico alla cura del giardino e delle sue piante. L'atmosfera ha qualcosa di inquietante e di misterioso. Ogni tanto un rumore, un fruscio, mi fa voltare e io riesco a vedere, solo per pochi attimi, le figure sorridenti di bambini che si dileguano rapidamente nella vegetazione. A volte li sento ridere ma non li vedo, presenze quasi spettrali.

Ritorno con i miei attrezzi da lavoro nella mia capanna. Incontro l'uomo anziano e saggio. È alto, robusto; ha una grande pancia, barba e capelli brizzolati, quasi bianchi. È lui il genio dei giardini, l'uomo che conosce i segreti per prendersi cura delle piante, che sa entrare in comunione con loro. 
"Sei tu!", mi dice quando mi vede. Mi parla del suo progetto, dei suoi bambini.
"Bisogna rinunciare a tutto e dedicarsi completamente alle piante, vivere con loro, prendersi cura di loro, per imparare l'armonia del silenzio. È una scelta di vita. So che tu vorresti venire con noi. So che potresti essere capace. Se decidi di seguirci, fammelo sapere. Te lo leggo negli occhi che saresti capace di seguirci. Ma pensaci e se decidi di unirti a noi, fammelo sapere."
I suoi occhi brillano di una luce strana, come se avessero il fuoco dentro.
"Non ho bisogno di pensarci. Ho già deciso. Vengo."
"Benissimo.", dice l'uomo saggio. "Andiamo via tra pochissimo."
Portiamo via con noi poca roba: qualche vestito e una sacca piena di libri. 
Però è qualcun altro che mi accompagna al laboratorio dove si realizzano prodotti cosmetici magici.
Il laboratorio assomiglia a un'antica farmacia. Si trova immerso nel verde e le ampie vetrate si affacciano su un giardino (o un bosco) dalla vegetazione così fitta da non lasciar entrare la luce del sole. Dentro, però, non è buio: c'è una luce singolare che s'irradia da un punto imprecisato del laboratorio. C'è un bancone lungo e alto di legno scuro.
Lungo i muri ci sono degli armadi con delle ante in vetro in cui sono disposti ordinatamente contenitori di ceramica decorata o vetro lavorato in cui si trovano le sostanze naturali che vengono utilizzate per i prodotti cosmetici.
La squadra è al lavoro. A dirigerla è una donna con i capelli rossi. Fra i suoi assistenti ci sono Silvia (mia cugina) e Rosolino (quello del nuoto).
Ci sono già stata in questo posto. Mi aveva servita Rosolino ma non sapevo che fosse il centro di ricerca per il progetto del vecchio saggio.
La presenza della persona che mi accompagna è un chiaro indizio. "Ce ne hai portata un'altra, eh?", dice la donna con i capelli rossi al mio accompagnatore. Parla senza guardarmi e continuando a trafficare con boccette e unguenti.
Tutti sono all'opera, tutti mi lanciano uno sguardo e mi sorridono ma nessuno smette di lavorare.
"Benvenuta!", continua la donna con i capelli rossi. "Io sono (...). Lei è Coraly (Silvia). Lui è Stan (Rosolino)..."
"Sì, lo conosco già.", la interrompo io. La donna sembra interdetta. Scambia uno sguardo contrariato con qualcuno dei suoi collaboratori e, sempre senza guardarmi, riprende a presentare gli altri con fare distaccato.
Mi rendo conto di aver sbagliato qualcosa. Sono di fronte a uno specchio incorniciato che si trova in un angolo del lungo bancone. Mi guardo riflessa e, dietro di me, c'è la persona che mi sta accompagnando (uomo o donna?). Cerca di dirmi qualcosa muovendo le labbra: "Non devi..."
"Non devo parlare?!"
"No! Non devi parlare con quel tono sgraziato, con quella voce dura!"
La donna con capelli rossi parla alla mia guida adesso ed evita di rivolgersi a me: "Questa nuova che ci hai portato è molto bella. È sicuramente la più bella di quelle che hai portato fino ad oggi ma la bellezza, così, è sprecata, senza poesia. Per potersi esprimere, la bellezza ha bisogno della musica, dell'eleganza. Solo così può entrare in armonia con tutto il resto."
"Lo so!", interviene la mia guida. "E lo sa anche lei. Dalle un'altra opportunità. È appena arrivata."
Intanto Silvia Coraly ha quasi ultimato il suo lavoro e lo mostra soddisfatta alla donna con i capelli rossi. Anche lei è soddisfatta del lavoro: in un vasetto di vetro molto piccolo c'è una sostanza colorata e i colori sono mescolati in modo da disegnare un minuscolo fiore variopinto in cima al vasetto. "Non è ancora finito ma ci manca poco.", dice Silvia Coraly.
Sono affascinata da quella sostanza molle e colorata. La fisso rapita mentre le parole della donna dai capelli rossi continuano a riecheggiarmi nella testa: "La bellezza è sprecata senza poesia... La bellezza ha bisogno della musica, dell'eleganza..."
Allora succede l'incredibile. La sostanza colorata esce dal vasetto come una lumaca molle e senza guscio e fluttuando aggraziata viene verso l'indice della mia mano sinistra e comincia a sfregarsi contro il mio dito come un gatto che fa le fusa. Poi gli si attorciglia in modo sinuoso, come un serpente innamorato. Sono tutti esterefatti e nessuno riesce a parlare. Io non sono stupita, invece. Anzi, sorrido contenta. Continuo a sentire le parole della donna con i capelli rossi che si ripetono incessantemente dietro i miei occhi. 
Poi la sostanza colorata si stacca dal mio dito e, sempre fluttuando a mezz'aria, comincia a trasformarsi, a cambiare colore e forma ed è uno spettacolo meraviglioso. E sono io che lo dirigo. 
Poi la sostanza rientra nel vasetto e improvvisamente riesplode sotto forma di minuscoli fiorellini colorati e iridescenti che si vengono a posare sul mio viso, sul naso e sulle guance, come se fossero efelidi magiche.
Sono tutti strabiliati ed esclamano: "È bellissima!"
Mi vedo da fuori. Brillo tutta di una luce straordinaria. 
È vero: sono bellissima.



domenica 2 marzo 2014

Di quell'altra

Dialoghi intensi con quell'altra.
Meno male che c'è, quell'altra. 
E meno male che non molla.
A tratti la sensazione è quella di lasciar cadere strati e strati di abiti pesanti, armature, travestimenti, pelle secca. (Via la zavorra, via i pesi. Via, via, via!)
Il punto adesso è il come, ché i ruggiti diventano ogni giorno più potenti e la fame insaziabile. 
L'immagine riflessa che rimandano questi luoghi è avvelenata. Si rischia la vita.
Ma c'è quell'altra. C'è sempre stata, anche quando uno pensava di no. Non s'è ancora capito da dove sia arrivata o chi l'abbia messa lì, ma c'è. 
Meno male che c'è.