domenica 24 novembre 2013

Di un anello

Fa molto freddo. Il sole è già tramontato e diventa velocemente buio. Le luci dei lampioni e le insegne si accendono. 
Cammino senza fretta. Non so dove sto andando. Non sono mai stata in questa zona di Parigi.
Sono quasi sul punto di tornare indietro quando mi trovo davanti una strada più stretta del boulevard che sto percorrendo: rue du Moulin-des-Près. Il nome mi colpisce. Mi ricorda qualcosa. Ci sono già stata?, mi chiedo. M'incammino su per la strada ma non riconosco nulla. Poi, dal lato opposto del marciapiede, vedo la vetrina illuminata di un piccolo negozio. Attraverso e vado a guardare da vicino. 
Il negozio è minuscolo. Una sola stanza piena di roba diversissima, disposta in maniera disordinata su tavoli e ripiani. Non sembra ci sia lo spazio nemmeno per muoversi, lì dentro. Degli oggetti disposti in vetrina mi colpisce una scatola con degli anelli e un anello in particolare. Resto a osservare per un po'. Quando sollevo lo sguardo, incontro quello della proprietaria, una donna esile, con i capelli neri, la pelle olivastra e una giacca rossa. Mi sorride, mi dice qualcosa attraverso la vetrina e mi indica la porta. Leggo sulle sue labbra: "Vous pouvez pousser la porte et entrer." Le sorrido ma scuoto la testa. Mi sembra un piccolo negozio di antiquariato, quello e immagino che i prezzi siano fuori dalla mia portata. Lei, per tutta risposta, va ad aprire la porticina del negozio e mi ripete l'invito ad entrare, sorridendo. Mi avvicino e le spiego che mi erano piaciuti gli anelli ma che ero sicura fossero troppo costosi per me. "Pas du tout!", mi dice lei e mi spiega che costano dagli 8 ai 18 euro. Entro. Lei prende la scatola e me li fa osservare da vicino. Comincio a provarli. Alcuni sono troppo stretti, altri troppo larghi. Quello che mi era piaciuto subito, invece, mi va alla perfezione. Lo prendo. E mentre lei me lo mette in un sacchettino di carta, cominciamo a chiacchierare. Prendo il pacchetto ma non vado via. Non mi è ben chiaro come sia cominciata ma quella donna dolcissima ha preso a raccontarmi di sé, della sua vita, delle sue esperienze. E io non ho potuto fare altro se non ricambiare raccontandole di me. Parlavamo in francese e in inglese, come ci veniva più semplice. E abbiamo parlato delle lingue straniere, di Parigi, di Londra, del suo lavoro, del mio. Abbiamo parlato della vita e dell'amore e dell'amore per la vita. E dell'amore per l'amore. Abbiamo parlato a lungo. Solo alla fine le ho chiesto il suo nome. Stella. E lei ha chiesto il mio. Quando gliel'ho detto, Tu as de la grâce pas seulement dans ton nom, mi ha risposto. Tu es belle!
L'ho ringraziata. Ci siamo salutate sorridendoci ancora con le labbra e con gli occhi e poi sono andata via. E mi sentivo leggera e  felice e piena d'amore.
E Parigi mi ha finalmente mostrato la sua anima.



venerdì 15 novembre 2013

Della pioggia

Piove.
Apro l'ombrello. L'ombrello nero con i motivi beige che ho comprato a Londra 13 anni fa. Sto tornando a casa. 
La testa galleggia tra i pensieri ma sono pensieri nuovi, leggeri. La pioggia batte sull'ombrello, il vento umido mi scompiglia i capelli sciolti. Ascolto Björk al mio iPod mentre cammino concentrata su me stessa: la punta fredda del naso, il calore della sciarpa attorno al collo, i miei stivali un passo dietro l'altro. Camminerei così all'infinito, riavvolgendomi piano su me stessa, ricordo su ricordo, emozione su emozione, ferita su ferita, sorriso su sorriso.
Potrei morire adesso. Adesso che non avverto il morso del rimpianto. Adesso che l'unica cosa che riesco a sentire è l'amore che mi porto dentro, quello che non finisce mai, quello che mi unisce al mondo. A tutto. Anche alla tristezza.
Vorrei morire adesso. Adesso che cammino sotto la pioggia e mi sento una e sono così felice che piangerei.
Vorrei morire adesso.
E poi rinascere.


lunedì 21 ottobre 2013

martedì 15 ottobre 2013

Dei reggiseni


Mi serve un reggiseno nuovo. 
Entro nel negozio. Chiedo alla commessa e le spiego che io non uso ferretti, push up e altre amenità. Mentre parlo mi dirigo verso una scatola che sembra contenere il mio reggiseno ideale. Lei mi blocca dicendomi: "No, non è quello. Quello è senza coppe."
Cioè? Non ha vinto nessun premio? Che vuol dire senza coppe? (Quanto mi sento ignorante quando si tratta di certe cose di femmine!)
"Che vuol dire?", chiedo con una punta d'imbarazzo.
Lei tira fuori da un cassetto un altro reggiseno, color carne (aborro il color carne!), e mi dice: "E' questo quello che cerchi?" e mi passa un reggiseno con due cose mollicce e imbottite che sembrano delle tette svuotate. 
"No", le rispondo. "Questo è proprio quello che non voglio. Voglio quello." e lo indico con un dito il reggiseno che avevo visto prima.
Lei lo guarda e mi dice con una certa commiserazione: "Ah! Il triangolo semplice di cotone. Quello non regge niente. Lascia la forma naturale del seno." Il suo tono non mi scalfisce: "Esatto! Voglio il triangolo semplice!"
Me lo dovrò ricordare la prossima volta, quello che non regge niente e lascia la forma naturale del seno. Quello che non assomiglia a due tette svuotate. Quello senza ferretti o altri strumenti coercitivi. Quello voglio!
Ma, continuo a chiedermi, che cavolo vuol dire "senza coppe"?



venerdì 20 settembre 2013

Dei ritorni

Sono tornata nella stessa scuola dopo sette anni. E sette anni sono un sacco di tempo.
Gli alunni di allora, loro, non ci sono più (ovviamente) ma ho ritrovato tante colleghe e tanti colleghi, inclusi i collaboratori e le collaboratrici scolastiche che si ricordano ancora di me. Mi hanno abbracciata, baciata, sorriso. Qualcuno mi ha detto: "Ti aspettavamo!" o "Che bello che sei tornata!" 
Ho ritrovato la mia amica L. e abbracciarla forte nella sala docenti è stato bello, più bello che incontrarsi e mettersi a chiacchierare per strada al nostro paese.
Poi c'è l'altra collega d'inglese che non mi ha mai incontrato perché quando ho lavorato in quella scuola è stato proprio per sostituire lei e che per telefono mi dice che ha sentito tanto parlare di me e che non vede l'ora di conoscermi. Pure la dirigente mi dice che, dall'entusiasmo della sua vice, ha dedotto che debba essere una brava docente e quindi si aspetta molto da me. Tutte queste aspettative mi mettono un po' d'ansia perché dovrò dimostrare di esserne all'altezza. Ma è una cosa positiva: sarà uno stimolo costante a dare il meglio di me sempre.
E poi ci sono loro, i ragazzi. Entro in classe e ricomincia tutto un'altra volta, come se la pausa estiva non ci fosse mai stata. Non conosco i loro volti o i loro nomi, non ho con me materiale scolastico ma è come se scattasse qualcosa. Mi sento nel mio ambiente naturale. E so perfettamente cosa fare, cosa dire. 
Alla seconda ora sono in una terza (che cambia per il terzo anno consecutivo docente d'inglese). Alla fine dell'ora c'è l'intervallo. Mentre loro fanno pausa, li osservo e mi accorgo che mi piacciono già tanto. E mi ricordo già tutti i loro nomi.
Mi piace il mio lavoro. Credo mi piaccia sul serio.


venerdì 6 settembre 2013

Del risveglio

Il risveglio è il momento peggiore della giornata. La consapevolezza arriva gradualmente e, man mano che avanza, mi riempie di amarezza al punto che faccio fatica a deglutire. Inconsciamente spero si tratti di un brutto sogno. Frugo tra le pieghe della mente alla ricerca della prova che i ricordi siano sbagliati. Invece no, non si tratta di un sogno. Allora provo a riaddormentarmi, provo a sfuggire alla consapevolezza annebbiando la mente con il sonno, così come ci si sveglia per scacciare un incubo ma è un tentativo inutile. I pensieri hanno cominciato a far rumore. Sono come tarli che bucano il sonno e mi aprono gli occhi con prepotenza. Non mi addormento più.

Il risveglio è il momento in cui vacillo. Vorrei gridare: "Fuorigioco!", come quando ero bambina e giocavamo ad acchiapperello e non ce la facevo più a correre e avevo bisogno di una pausa e interrompere il gioco.
Mi ricordo questo sogno che feci da piccola. Nel sogno c'era il barone Ashura di Mazinga e stavamo combattendo con i robot e tutto il resto. Però si stava facendo tardi e io dovevo fare i compiti. Quindi, a un certo punto, smettevo di combattere e dicevo: "Fuorigioco!" ma il barone Ashura mi faceva prigioniera ugualmente e io mi arrabbiavo e gli urlavo: "Non vale! Ho detto 'Fuorigioco!'. Devo fare i compiti!" E lui mi rispondeva che quello non era mica un gioco che potevo smettere quando mi pareva.

Esatto. Mica è un gioco questo. Mica.


sabato 24 agosto 2013

mercoledì 24 luglio 2013

Dei ricordi che non sono veramente miei


Cosa sono questi ricordi che ho nella testa, queste sensazioni che mi nascono improvvise nel petto? Non assomigliano a niente che abbia vissuto. Eppure sono qui, camminano con me, crescono con me e non appassiscono mai. 
Non devo nemmeno chiudere gli occhi per rivivere tutto. A volte basta un odore, uno scricchiolio, un accenno di musica, la percezione tattile del legno ruvido sotto una mano.
Da dove vengono questi ricordi? Chi li ha messi là? Di chi sono?
L'epoca non è mai questa, è sempre precedente, anche di molti anni, di secoli persino. 
Io non ci sono. Non ci sono mai ma è come se ci fossi. Sempre. Come l'autore con le sue storie. Esattamente: come l'autore con le sue storie. Ma la storia non ha una trama. Ci sono solo frammenti, immagini, istantanee che, in qualche modo, mi appartengono e mi parlano. Di me.




sabato 29 giugno 2013

Del farci l'abitudine ovvero non mi ci abituerò mai

Sono tornata da scuola. Sulla faccia porto ancora gli odori confusi di creme e fondotinta e lozioni e dopobarba che mi hanno lasciato i colleghi e le colleghe che ho salutato. Oggi è l'ultimo giorno. Il mio contratto scade domani. 
C'è una collega che, come me, verrà licenziata a fine giugno e che piange. Io no. 
Per lei è la prima volta. Per me no. "Ci ha fatto l'abitudine.", commenta qualcuno. "Ha dovuto indurirsi per necessità dopo tutti questi anni.", commenta un'altra. 
Non è vero. Non ci ho fatto l'abitudine. Non mi sono indurita. Però, in dieci anni, ho imparato a trattenere le lacrime, a smettere di parlare quando avverto che la voce comincia a incrinarsi per l'emozione, a spostarmi all'improvviso per distrarre i pensieri, a inventarmi starnuti strozzati sul nascere per giustificare gli occhi umidi o a ridere per ignorare i nodi alla gola. Ho imparato a dissimulare. A volte ci riesco meglio, altre peggio. A volte, poi, arrivo alla macchina, entro, metto in moto, parto e scoppio a piangere senza ritegno.

Quest'anno è passato in fretta, così in fretta che adesso sono quasi stordita e incredula. Gli altri anni, verso la fine dell'anno, cominciavo a fare il conto alla rovescia dei giorni che mancavano al termine, classe per classe e, ogni giorno che passava, lo depennavo tutta contenta. Quest'anno no. Niente conto alla rovescia. Non ci ho nemmeno pensato. 
Lo sapevo che sarebbe finita, come tutti gli anni. Lo sapevo. Lo so. So che non tornerò. So che i "forse" e i "non so" servono solo ad attutire il colpo che arriva. Sempre. Inesorabile. Eppure quest'anno la presa di coscienza tarda ad arrivare. Sono qui che mi dico: "È finita!" ma non riesco a crederci. Non riesco a credere che domani non dovrò più varcare quel cancello. Non riesco a credere che da domani la professoressa Giotta non insegnerà più alla Galilei.
F. dice: "Non ti ho mai vista così attaccata a dei ragazzi come quest'anno." Non sono sicura che sia davvero così ma istintivamente scuoto la testa. No, non è così: mi affeziono sempre, tremendamente, come un cane. Ai ragazzi, ai colleghi, ai muri della scuola, ai corridoi vuoti. Forse, però, quest'anno la fatica per arrivare al lavoro è stata contenuta (poca roba i 50 km tra andata e ritorno rispetto ai circa 140 km che ho dovuto macinare in passato; poca roba la sveglia alle 6.30 di tre giorni su cinque, rispetto alla sveglia alle 5.30 dei cinque giorni su cinque dello scorso anno). Forse sarà stata la vicinanza benefica del mare. Comunque, l'energia che sono riuscita a recuperare l'ho investita completamente in classe, nel mio lavoro. Per i ragazzi. E forse questo ha fatto la differenza. 

Alla fine restano sempre i dubbi. I dubbi di non aver comunque fatto o dato abbastanza, di aver sbagliato qualcosa, di aver mancato qualcosa. Resta pure la certezza di non poter migliorare quello che è stato fatto, di non poter avere un'altra occasione, di non poter rendere i legami e le relazioni umane più salde, più profonde, più belle. Perché il prossimo anno ci sarà da ricominciare tutto da un'altra parte. Tutto da capo. Tutto un'altra volta. Entrerò di nuovo nelle seconde e nelle terze classi (che cambiano, forse, per il terzo anno consecutivo insegnante d'inglese) e probabilmente i ragazzi mi guarderanno con sospetto o m'ignoreranno o mi rifiuteranno o mi provocheranno fino a quando non riusciremo a trovare una sintonia. O forse la sintonia non riusciremo a trovarla mai in quei nove mesi scarsi di lezione e io incasserò il fallimento. 
E ancora dovrò ricominciare tutto da capo con i colleghi che, all'inizio, mi ascolteranno distrattamente, dimenticheranno il mio nome, la disciplina che insegno e da dove vengo e non sapranno se possono fidarsi di me, professionalmente e umanamente. 
Il primo collegio dell'anno dove tutti si conoscono e si salutano e si parlano e io mi siedo dove capita e sorrido a vanvera e mi sento un pizzico a disagio. E l'ultimo collegio dell'anno quando anch'io saluto tutti e parlo con tutti e sorrido con convinzione e ad alcuni colleghi glielo leggi in faccia che vorrebbero che tu restassi là e pure tu vorresti restare là e invece non puoi. 
Non posso. Maledizione, non posso!
Mi torna in mente una mia alunna di prima che, quest'anno, quando ho spiegato alla classe che non sapevo se ci sarei stata il prossimo anno perché a fine giugno il mio contratto sarebbe scaduto e io sarei stata licenziata, lei è sbottata: "Professoressa, ma perché la licenziano?! Lei è bravissima!" 
I miei aunni: la materia più preziosa. Rileggo i messaggi che hanno voluto lasciarmi a fine anno e non riesco più a dissimulare.
Non sono sicura di essere veramente riuscita a dar loro qualcosa. Sicuramente loro hanno dato molto a me. Cazzo! Quanto suona banale e ovvia e mielosa questa cosa! Ma, cazzo!, quant'è vera! Ed è l'unica spinta forte a continuare a sorridere e a grattare il fondo della mia stanchezza alla ricerca di nuova grinta per non mollare. 

Secondo me sono migliorato tantissimo in inglese perché prima non ero così bravo. Ciò è successo grazie ad una professoressa brava e con tanta esperienza e di questo ne sono molto fiero. 

La mia  insegnante è stata molto brava, comprensiva e ci ha consolato nei momenti più difficili, e mi dispiacerebbe se lei se ne andasse e vorrei che rimanga per gli altri due anni.

Penso che le professoresse ce ne siano tanti tipi: da quelle "pazze", buone, fin troppo buone da non essere rispettate, cattive e tante altre caratteristiche e caratteri. Però penso che ci siano delle eccezioni, professoresse che riescono ad essere tutto senza avere svantaggi in niente, tutto equamente. Penso che lei sia una di quelle "eccezioni". Spero si sia trovata bene con noi. Continui così perché, per noi, è stata una fortuna averla con noi.

In questi 3 anni abbiamo sempre cambiato professoresse e non avrei potuto chiedere una professoressa migliore di lei per portarci agli esami. Spero sia orgogliosa di noi.

MAGARI CI VEDIAMO L'ANNO PROSSIMO. GRAZIE DI ESSERE LA NOSTRA PROF.

(...) non ho mai adorato così l'inglese! Spero che l'anno prossimo ritorna perché oltre a capire e amare l'inglese, ho sviluppato un forte legame affettivo.
PS: è la verità!!

Professoressa, da grande vorrei diventare come te che viaggi ma non vorrei fare l'insegnante.

Voglio che siano tutti i prof come la Giotta. [studente anonimo]

Prof, mi scusi per il casino fatto e per i consigli non seguiti, lei è un'ottima professoressa. Le voglio bene. :)

Grazie di tutto, fino alla fine Forza Juventus.

È stato un anno bellissimo e anche se non amo proprio la lingua inglese dopo questo anno la studierò con più piacere grazie ai suoi consigli. Un grande ringraziamento da quello della seconda fila.

Prof, lei è la professoressa che ho sempre sognato di avere. (...) Non mi dimenticherò mai delle canzoni cantate insieme.

Non ho cipolle per farla piangere, ma spero che lei abbia un po' di umorismo per ridere! 
Le voglio bene.

(...) Voglio dirle che lei è stata un esempio per me, tanto che, nei pochi giorni in cui si è assentata, non ho gioito come avrei fatto se si fossero assentati altri insegnanti. Con queste parole intendo dire che io la considero quasi come una seconda madre e, proprio come le madri non si possono cambiare, non voglio che lei se ne vada. Le voglio un mondo di bene.

Professoressa, lei mi mancherà perché è stata una delle professoresse più brave che ci siano, perché nonostante noi davamo molto fastidio lei non ha mollato con noi, ed io volevo dirle un grazie enorme per tutto.

La professoressa Giotta è stata molto comprensiva verso i ragazzi più "deboli" e ha cercato di aiutarci e di spiegarci ogni particolare. Per me è stata e lo sarà per sempre la mia cara Professoressa Giotta.

È stata un'insegnante bravissima e spero che un giorno ci rivedremo. Quel giorno dovrò darle del lei?

Mi ha fatto cambiare idea sull'inglese e mi ha fatto capire che mi piace l'inglese.

Prof, quest'anno è stato fantastico e lei è riuscita a farmi adorare l'inglese.

(...) Poi vorrei solo dirle grazie perché mi ha fatto amare ancora di più l'inglese di quanto già non lo amavo, soprattutto grazie al suo modo di spiegare. Davvero, GRAZIE! Mi piacerebbe che ci fosse lei al superiore.

Lei è stata una delle poche professoresse che ha saputo fare il suo dovere ma ha anche saputo interagire con noi. Siamo noi a doverla ringraziare per tutto quello che ha fatto.

Siamo noi a doverla ringraziare perché anche quando non abbiamo saputo fare qualcosa lei c'è stata sempre di grande aiuto e non ci ha fatto mollare MAI!!!!! Grazie!!!!!

aoooooo è qui la festaaaaa?? Grazie di tutto professorè quest'anno lei e m. avete "attaccato" un ottimo rapporto con noi (lei di più) ed è una cosa molto buona visto che ci ha dato molti consigli e molti di noi ne hanno fatto tesoro... Grazie a pròòòò

E buone vacanze!




mercoledì 29 maggio 2013

Del rivelare debolezze

Lo so. È un film vergognosamente idiota. E, infatti, mi vergogno parecchio. Però questo è un post sul rivelare debolezze. Quindi ci sta.
Il film si chiama He's just not into you. Tradotto in italiano, La verità è che non gli piaci abbastanza. Come scrivevo prima, si tratta di una boiata immane. Uno di quegli stupidi film americani per ragazzine adolescenti affamate di storielle romantiche assolutamente prevedibili e tristemente banali. Uno di quei film dove i protagonisti sono tutti belli o affascinanti o, quanto meno, divertenti e abitano in case fiche e fanno lavori che sembrano più che altro dei passatempo e dove i capi o sembrano non esistere o non assomigliano nemmeno lontanamente a quelli della nostra grigia realtà. Una cretinaggine assoluta di film, appunto.

L'ho visto. Mi capita spesso di vederne di film così. Piuttosto che soccombere alla tv di stato o alle altri reti con i loro programmi spazzatura o con quelli che ti fanno ammalare il fegato, a volte, io e F. preferiamo sorbirci consapevolmente qualche film spazzatura che, alla fine, ha qualche risvolto positivo (Vedi un po' se c'è qualche film deficiente stasera?). Primo: i film sono così idioti che noi, a confronto, ci sentiamo molto intelligenti. Secondo: i film sono in lingua originale. Io mi tengo allenata e F. impara (b'fore!). Terzo: smettiamo di pensare ai problemi pesanti che ci tiriamo dietro fino a sera, ci riposiamo un po' e qualche volta ci scappa pure qualche risata. Quattro: approfondiamo la nostra analisi sociologica del popolo americano attraverso la sua rappresentazione filmografica (ché la maggior parte dei film di questo genere sono americani).

Dunque, dicevo, ho visto questo film. In inglese, appunto. Non una volta. Almeno quattro, credo. Non sempre per intero. A volte solo dei pezzetti. E, in maniera particolare, una delle sequenze finali. Perché?! Perché, a un certo punto della mia vita, qualcosa deve essermi restato incrostato dentro, da qualche parte, più o meno in corrispondenza del muscolo cardiaco, che mi fa un effetto strano. 
Succede così. C'è questa scena qua. Una delle ultime, con Alex e Gigi. E mentre loro parlano sulla soglia della porta dell'appartamento di Gigi, mi prende una fitta dalle parti del cuore. Mi stringe. Mi fa male. Un male fisico, reale ma tenero, dolce come vino rosso. E mi piace. Mi piace moltissimo. 
Non capisco perché proprio questa scena, fra tutte le altre. Frugo tra i ricordi. Mi chiedo se inconsciamente non l'associ a qualcosa del mio passato ma non mi viene in mente nulla. 
C'è questo momento quando Gigi dice che è uscita con tale Bill, amico di Alex, e a lei sembra essere il tipo giusto, senza drammi, uno che chiama e fa quello che dice e Alex la interrompe, le si avvicina un altro po' sussurrandole: "Lo posso fare anch'io". Ecco, lì la fitta è tremenda. Eppure è tutto così banale e ovvio e stupido che... non capisco. Non mi capisco. Sarà lo sguardo di Justin Long. È lui che mi ricorda qualcuno? O sarà per colpa di Somewhere only we know dei Keane in sottofondo?
Non lo so. So solo che il film è veramente stupido, la sequenza banale ma a me prende una meravigliosa fitta al cuore ogni volta che la vedo. E mi sembra di avere di nuovo 15 anni.



martedì 28 maggio 2013

Della "munnezz nghep"

Qui di seguito una mia brevissima raccolta casuale di commenti letti in rete a proposito delle recenti elezioni comunali.
I commenti sono così come li ho trovati: ortografia, punteggiatura, spaziatura. Ho solo rimosso i nomi. 
Buon divertimento!


Si mi fa molto piacere la raccomandazione e di pensare al sociale a chi a bisogno nei momenti bui .non diventare ingordi e avidi di soldi Dio ci vede

andare a rodersi da un'altra pagina no?

signori contestatori siete dei cretini attaccati al filo mettetevi a terra e vedete il cammino....................

Caro sindaco ora bisogna rimboccarsi le manike e dare ragione a noi ke l'abbiamo votata e nn a ki le ha sempre remato contro....in bocca al lupo

COMPLIMENTI SINDACO ora come noi abbiamo mantenuto la nostra fede con lei,lei non ci deve deludere...

Mi fa piacere! Ora voglio il marciapiede davanti a casa!!

Anche a nome di Vittorio Sgarbi ti faccio i complimenti vivissimi e sinceri

tantissimi auguri,io non avevo dubbi al grande successo,complimenti!!!!

Ed ora le luci in tutta la che è buia grazie

Già era pronta la felpa e Sindaco? COMPLIMENTI!!!!

Oh...no..come ti sei ridotta in basso....proprio con il piu' ignorante dovevi stare....Mah...

io o votato xxx signor xxx o molta fiducia in lei le mando un imbocca al lupo

Caro Xxx sono sempre più convinto del 78% [dato reale: 2,66%]

Gli hai stracciatiiii!!!!!!evvivaaaaaa!!!!!!

Ai steso a tutti..

oggi sono. Andata avotare.sono della,destra

Xxx il sole con te brillera su di noi celafai a vincere noi saremo il tuo cielo

NB – SV vai a raccogliere i pomodori con i tuoi amici comunisti visto che avete già perso in partenza...
SV - che livello basso. Mammamia
NB – SV il livello basso tienilo per te e la tua signora Xxx visto che sei in questa pagina a spiare...

Luatv a munnezz da nghep




martedì 7 maggio 2013

Di un ricordo


Giovinezza. Questa è la prima parola.
Sole. La seconda.
Leggerezza. Tre.
Solitudine. Quattro.
Sorriso. Cinque.


Attraversare la città caotica a piedi per raggiungere l'università e dare il mio primo orale.
La trepidazione del sangue, Suzanne Vega nelle orecchie e un sorriso fiducioso stampato dietro gli occhi inondati di sole.
Ero arrotolata su me stessa, bozzolo morbido ma compatto.
Guardavo dritto al futuro assaporando ogni attimo del presente.
Ero sicura che la vita mi avrebbe dato tanto. Ne ero sicura perché quel "tanto", io, me lo sarei andato a prendere. E, per diverso tempo, sono stata sulla buona strada. Poi, ad un certo punto, qualcosa è andato storto. Mi sono persa. E non mi sono ancora ritrovata.


martedì 30 aprile 2013

Del volo (parte 2)


Birdy: Do you like pigeons?
Sergeant Al Columbato: What's to like?
Birdy: They fly.
Sergeant Al Columbato: They fly. So what?
Birdy: That's enough.

Questo è stato il primo dialogo tratto da un film che ho imparato a memoria in inglese, quando l'inglese lo studiavo ancora da pochissimo tempo. 
Ero molto giovane quando ho visto per la prima volta Birdy, il film di Alan Parker del 1984. Ne  rimasi affascinata. Naturale, considerato che ho trascorso l'adolescenza con la ferma convinzione di poter volare. (In realtà, non credo di averla mai persa, quella convinzione. Da qualche parte, negli angoli più nascosti della mia coscienza, sono ancora convinta di poterlo fare.) Un giorno ero seduta su un gradino davanti casa, vicino al mio cane. Era estate. Il cielo era di un azzurro meraviglioso. Cominciai a desiderare intensamente di poter volare e a un certo punto mi convinsi di poterlo fare. Mi alzai da terra e cominciai a saltare più in alto che potevo. Ero sicura che se mi fossi staccata a sufficienza dal suolo sarei riuscita a restare sospesa per aria. Ci provai per un po', continuando a spiccare salti con lo sguardo rivolto verso il cielo. La cosa più buffa fu la reazione del mio cane che mi guardava stranito e con le orecchie dritte. 

Birdy era la mia anima gemella. Sarei voluta entrare nella pellicola per dirgli, "Io ti capisco!" e sentirmi, a mia volta, meno sola.
Moltissime sequenze del film di Alan Parker sembravano riproduzioni fedeli dei miei desideri, dei miei sogni ad occhi aperti. La musica di Peter Gabriel la colonna sonora perfetta per i voli sfrenati della mia mente.
Ogni volta che vedevo il film, durante quelle sequenze, il cuore accelerava i battiti, scariche di adrenalina nel sangue. Gli occhi spalancati, smettevo di essere in un solo luogo.

A Londra comprai la videocassetta del film. Poi la locandina del film. Poi il cd della colonna sonora. Poi anche il romanzo da cui è liberamente tratto il film (storia completamente diversa, in fondo, ma complementare a quella del film. Raro caso in cui film e romanzo sono all'altezza l'uno dell'altro).
There is nothing of fright when one flies free. There's only the taste of air and touching nowhere. I see the earth below and it's down the way the sky is up when you look from the ground. Everything is out or away and the play of gravity is like sand.

Stamattina ho rimesso su la colonna sonora del film dopo tanto tempo. E me la sono portata appresso in macchina. E mentre ascoltavo The Rhythm of the Heat è successo che un uccello s'è messo a svolazzarmi davanti al parabrezza come se mi stesse indicando la strada. E io dietro. E, all'improvviso, il volo di Birdy nei ricordi. E di nuovo i brividi e l'eccitazione. 



Birdy: The dream is as real to me now as my waking life. I don't know where one begins and the other ends. I wish I could tell Al, but I'm afraid to. In my dreams, nothing holds me down. Everything's out and away. There's nothing in my life to keep me here anymore. I wish I could die and be born again as a bird.

Adoro quello che la mia mente e la mia immaginazione riescono a fare. Senza, non potrei volare. Senza, non riuscirei a sopportare la mia esistenza. Senza, sarei morta dentro.

sabato 20 aprile 2013

Di un sabato mattina ad aprile

Ho dormito male. Mi sveglio con gli occhi iniettati  di sangue. Il mio fegato implora pietà.
È un brutto periodo. Shit happens, dicono gli inglesi. In questo periodo, la shit mi sta capitando a palate, però. E vivere in questo schifo d'Italia non aiuta di certo.
Devo andare a scuola. 
Collego l'iPod all'autoradio. Devo scegliere la musica da ascoltare ma mi sento profondamente irritata e non riesco a pensare a nulla che mi darebbe un po' di sollievo. 
Scorro velocemente le playlist in memoria. Istintivamente mi fermo su una. Titolo: Italiana. Non ricordo assolutamente cosa ci sia là dentro e non ho tempo di verificare. 
Incuriosita, schiaccio play e parto.
Miiiiiiiiiiii'! Ho beccato quella giusta!

Brano #1
Se telefonando, Mina


Se telefonando 
io potessi dirti addio
ti chiamereeeeeeeeeeeeeeeeeeiiiiiiiiiiii!
[canto pure io]

Distensione - fase numero uno.
Gli angoli della bocca si rilassano.

Brano #2
Acqua e sapone, Stadio



Allora, il testo di questa canzone è pessimo e, quando l'ascolto, mentalmente mi ripeto che è una boiata pazzesca. Però la canzone continua a piacermi e non posso farci niente. Solo, evito di cantarla.

Distensione - fase numero tre
Gli occhi sorridono.

Brano #3 
Ma che freddo fa, Nada


La notte adesso scende
con le sue mani fredde su di me
ma che freddo fa
ma che freddo fa

Distensione - fase numero tre
Comincio a notare il paesaggio oltre i vetri dell'auto.

Brano #4
Nessuno mi può giudicare, Caterina Caselli


Nessuno mi può giudicare 
nemmeno tu

Distensione - fase numero quattro
La fronte corrugata molla un po' la presa mentre elenco mentalmente un po' di persone alle quali potrei cantare questo verso qua.

Brano #5
Sandokan, Oliver Onions


Quando parte questa, mi scappa da ridere. E rido. 
Finalmente la fronte corrugata si distende del tutto. 
Canto a squarciagola.

Corre il sangue 
nelle vene
grande vento 
nella notte calda si alzerà
Sandokàn Sandokàn
giallo il sole la forza mi dà
Sandokàn Sandokàn
dammi forza ogni giorno ogni notte il coraggio verrà

Questa canzone è favolosa! Seriamente. Quasi un preghiera.

Brano #6
Via con me, Paolo Conte


Via, via
vieni via di qui
niente più ti lega a questi luoghi [mi sa che c'hai ragione, Paolo]
neanche questi fiori azzurri

I fiori azzurri, no. Ma c'è quella cosa azzurra laggiù, quella che adesso lambisce l'orizzonte, che mi tiene legata a sé come una mamma gelosa. 
Dove lo trovo un altro mare così? 

Devo trovare un altro mare così.

E poi sono giunta a destinazione.
Off.