domenica 9 novembre 2014

Della voce

Ho un udito particolarmente sensibile. Questa condizione mi crea parecchi problemi in una società dove l'inquinamento acustico e la maleducazione sonora sono la regola; dove sopportare suoni indesiderati è fatto ovvio e, se proprio non ci riesci, allora sei una rompiballe e basta. Con buona pace del fatto che le orecchie non hanno niente che assomigli alle palpebre e non posso (NON POSSO!) smettere di sentire a mio piacimento, cosicché certe situazioni si trasformano in vere e proprie torture fisiche e psicologiche.

Il mio udito sensibile mi condiziona anche nelle relazioni interpersonali. 
La voce. Questa serie di suoni straordinari che siamo quasi tutti in grado di emettere per esprimerci, per comunicare, per liberare la mente, per cantare. 
La voce degli altri mi condiziona molto. La consapevolezza di questo condizionamento è recente. E mi ha sorpresa. Se la voce di chi mi parla non mi piace, resto distante. Faccio fatica a concentrarmi su quello che mi si dice. Se non mi piace, perdo interesse anche per chi la possiede, fosse anche la creatura più bella e affascinante del pianeta. 
Ma se mi piace...

Se mi piace davvero.
La voce invade ogni recesso della mente. È una cascata morbida. Mi lascio investire e penetrare dal suono. I sensi si placano. Accade tutto dentro. Nella testa. E nella pancia. Il suono raggiunge il centro del mio sentire. Provo piacere. 

Certe voci sono così belle che me ne innamoro. E m'innamoro.
Certe voci s'adattano al mio paesaggio interiore come un calco invisibile, come la parte mancante.
Certe voci.
E, se una di queste voci s'innamora della mia, allora...
Allora.




sabato 1 novembre 2014

Dell'inesistente

Non esiste. Non esisterà mai.
È un desiderio, un'emozione di carne. 
C'è. Ma non esiste. Non ha passato e, sicuramente, non ha futuro. È un eterno presente. 
Mi abita dentro, annidato tra i pensieri, tra i palpiti del sangue, tra i ricordi. 
È una certezza testarda.
È rabbia trattenuta. 
È attesa senza fine. Senza soddisfazione.

Vorrei potermi sedere di fronte a me stessa per guardarmi negli occhi, senza specchio. 
Vorrei toccare il mio viso come fosse di un'altra; ascoltare la mia voce con le mie orecchie diverse.
Vorrei poter provare a capirmi, fuori da me stessa, ragionare ad alta voce con il mio doppio. Scuotermi, spingermi, prendermi a schiaffi. Stringermi forte. Asciugarmi le lacrime. Accarezzarmi i capelli. Tenermi la mano. 
Altra da me ma sempre io. Io che so. Io che conosco l'indicibile di me. Io che non riesco ad adattarmi. Io che ho deciso di non volermi accontentare più.
Io, intrappolata in un Paese che affonda sempre più nell'inumano. Che mi fa sentire impotente. Che mi fa desiderare la fuga. 
Ma poi non c'è nessun posto dove poter fuggire. La miseria umana è ovunque.
L'unica è chiudersi dentro. Nella propria testa. O restare a respirare il cielo e il mare. Affondare piedi e mani nella terra viva. 
Chiudere gli occhi. Proiettarsi tra le stelle.
Dimenticare. 
E, finalmente, smettere di pensare.



"We want only to live
Only to love and breathe again"





sabato 18 ottobre 2014

Delle cozze

Più che una ferita, ho una voragine. Nella testa e nel petto. Il secondo cervello s'è ammalato e basta.
Che cosa ho fatto della mia vita? Come ho fatto a sprecarla così stupidamente? Per cosa, poi? Per un'idea, alla fine. Falsa come una banconota da 15 euro. Un'illusione totale. 
Uno dei rischi dell'avere una spiccata capacità immaginifica è quello che si possa arrivare a dipingere splendidi scenari - mari e monti e valli rigogliose e ruscelli e cielo limpido - a nascondere una distesa di spazzatura. Perfino la puzza diventa un odore sopportabile. 
Poi, il proiettore che avevo nella testa s'è inceppato. Ha cominciato a funzionare a intermittenza. Alla fine, s'è spento completamente. E la realtà era lì ad aspettarmi. La spazzatura. Ma quanta! E quante bugie! Dio, la massa informe di bugie! Come vermi dall'aspetto orrendo a rotolarsi nella melma. 
Dov'ero io mentre camminavo in questa palude appiccicosa e fetida? Come ho fatto a non accorgermene? Come ho potuto sacrificare i miei figli così? E la mia voglia di altro da qui? 
Hanno pugnalato a morte la mia innata fiducia che, alla fine, tutto andrà per il meglio, che ci si possa fidare degli altri. Mi hanno succhiato l'anima e mi hanno gettato via come una cozza vuota. Senza neanche un "grazie" o un "mi dispiace". Perché, tanto, sono cose che capitano. 
Cose che capitano, dice.
Cose che capitano, un cazzo! 
La cattiveria non capita. La disonestà non capita. L'ingratitudine non capita. L'idiozia affettiva non capita. L'egoismo non capita. 

Ma io? Dov'ero io? Perché ci ho messo tanto ad aprire questi fottutissimi occhi azzurri?

Pensavo di essere riuscita a perdonarmi. 
Invece no.



venerdì 17 ottobre 2014

Della scusa per aprire parentesi

Venerdì scorso ho aderito allo sciopero e ho saltato la mia doppia lezione in prima media. Ieri mattina ho usufruito di un'ora di recupero e ho saltato di nuovo la lezione di un'ora nella stessa prima (ovviamente, non di proposito). La collega che mi ha sostituito ieri mi ha riferito che i ragazzi erano molto contrariati dalla mia assenza e mi reclamavano. Stamattina sono arrivata a scuola e le ragazzine mi sono corse incontro sul portone - tutte gridolini e sorrisi - per salutarmi. In classe M. mi ha rinfacciato di averli traditi perché non sono andata da loro per due settimane! Le ho fatto notare che la settimana era una e corrispondeva a due sole lezioni. Poi ho spiegato perché mi sono assentata e le motivazioni della mia adesione allo sciopero (anche se c'è qualche collega che ritiene che sia tempo perso, ché sono troppo piccoli per capire). 
Succede di frequente che, discutendo di un argomento, si arrivi a parlare di un altro che ha scarsa attinenza con il primo o con l'inglese. Le mie parentesi, cioè. Quei momenti durante i quali facciamo pratica di dialogo e confronto, dove esercitiamo il senso critico, impariamo a chiedere i nostri perché e proviamo a dare risposte ragionate e sensate; dove si ascolta e si aspetta il proprio turno per parlare. I momenti durante i quali (ci) si racconta. Io e loro. La parte del mio lavoro che preferisco. 
E così siamo finiti a parlare di migranti. È partito tutto da un commento ingenuo, fatto in maniera superficiale e, perciò, potenzialmente pericoloso. Nel caso specifico, quel commento aveva già ferito una ragazzina di origini marocchine. Di due ore di lezione, una l'abbiamo dedicata a questo confronto. Non è stato semplice gestire la discussione. Dovevo stare attenta a che la ragazzina non venisse ferita ancora/troppo da quello che i suoi compagni dicevano senza troppa reticenza ma, allo stesso tempo, era necessario che le parole venissero dette per poter chiedere i giusti perché, stimolare la riflessione e instillare il dubbio. E mi sono preoccupata un attimo quando ho chiesto: "Ma allora che facciamo con A. ed E. (gli unici due alunni con origini non italiane della classe)? Li cacciamo dall'Italia?". Mi sono preoccupata perché mi guardavano tutti in silenzio e nessuno rispondeva. Ho dovuto ripetere la domanda tre volte prima che mi rispondessero di no, che volevano che i loro compagni restassero. Eppure sono convinta che qualcuno di loro l'abbia detto solo perché trascinato dal gruppo. Mi ha molto colpito una ragazzina che, alla domanda che ponevo a una sua compagna, "Ma tu sei sicura che quest'informazione sia vera e corretta? Chi te l'ha detto?", s'è intromessa affermando con molta decisione: "Ma ce lo dicono i nostri genitori!" Altrimenti detto, se lo dicono loro, allora è vero.
Ho lasciato che A. ed E. raccontassero brevemente i loro vissuti, che spiegassero perché sono venuti in Italia. È stato bello ascoltarli.
Poi A., la ragazzina marocchina, durante l'intervallo, è venuta a raccontarmi in privato che anche alle elementari veniva spesso presa di mira dai commenti poco gentili dei compagni e (ha aggiunto con mio profondo orrore) anche di qualche maestra.

Durante la prima ora di lezione in una seconda, invece, la parentesi si è aperta a proposito dell'enorme patrimonio culturale, artistico e paesaggistico che abbiamo in Italia e che, invece di essere trattato come una delle risorse più importanti della nostra nazione, viene puntualmente ignorato e/o dimenticato. 

L'ultima ora in terza, infine, l'ho aperta con una bella discussione sul fumo, visto che becco sempre un paio di alunni a fumare prima dell'inizio delle lezioni. Non voleva essere la solita paternale moralistica sul fatto che fumare fa male. So perfettamente che non avrebbe sortito nessun effetto. Lo sanno già, che fa male. Ci siamo messi a chiacchierare di questa che per una ragazza, A., in particolare, è già una dipendenza. Chiacchierare con molta fatica. Ché questi ragazzi di terza non sono proprio abituati al dialogo e all'ascolto. L'unica modalità di lezione che concepiscono (= restano in educato silenzio e ascoltano - o fanno finta) è la lezione frontale. Se si chiede loro un minimo di partecipazione, è la fine! Ma comincerò dalla fine. Credo sia davvero necessario imparare ad ascoltarsi e a intervenire in forma corretta alle discussioni in classe. E ovunque. 
Alla fine dell'ora, mentre si mettevano in fila per uscire, ho detto ad A.: "Però, almeno, prova a fumare di meno..." E lei è venuta ad abbracciarmi. È stato un gesto spontaneo e tenerissimo che mi ha molto colpita.

E poi sono tornata a casa. Ero stanchissima. Guidavo e riascoltavo nella mia testa le conversazioni avute oggi con i ragazzi.
Ecco: adesso io non so veramente se tutto questo dialogare e confrontarsi avrà un effetto positivo su di loro oppure no, però comincio a credere che, per me, insegnare inglese sia solo una scusa per aprire parentesi.




lunedì 13 ottobre 2014

Delle discoteche

Sto per passare sotto la doccia prima di entrare in piscina. Nella corsia che s'intravede dall'altra parte della doccia c'è un tizio che nuota. Arriva a bordo vasca, si ferma, si toglie gli occhialini e mi guarda. Mi guarda anche mentre passo tra i getti d'acqua della doccia automatica.
Che cavolo guardi?, penso.
Occupo la corsia numero 5, due corsie più su rispetto a quella dove nuota il tizio. Nelle corsie in mezzo non c'è nessuno.
Comincio a nuotare.
Ogni volta che mi fermo a bordo vasca e anche il tizio s'è fermato, mi accorgo che guarda nella mia direzione. Allora comincio a guardarlo anch'io, abbastanza perplessa: Ma che vuoi?
In realtà, ho l'impressione di averlo già visto da qualche parte. O mi ricorda qualcun altro. Poi penso pure che, in fondo, è molto carino.
A un certo punto sembra che stia per dirmi qualcosa. Infatti, la dice: "Ma qui ce l'hanno l'ossigeno?"
Va bene, ho capito che voleva essere una battuta spiritosa ma, a me, non sembra molto divertente e non riesco neanche a fingere che lo sia. Perciò, "Eh?", dico. 
Lui ripete convinto la fesseria di prima, spiegandomela (peggio ancora!). Mi sforzo di piegare gli angoli della bocca verso l'alto e di emettere un suono che esprima divertimento (non so con quale risultato).
Per levarmi dall'imbarazzo, chiedo: "Ma ci siamo già visti da qualche parte?"
"Non so", fa lui. "Sei di P.?"
"No."
"Di dove sei?"
"Di L. Tu sei di P.?"
"Sì."
"Va be'", concludo. "Forse è solo un'impressione o mi ricordi qualcun altro che conosco."
Allora lui s'affretta ad aggiungere qualcosa e dice 'la cosa sbagliata': "Forse ci siamo visti in discoteca..." All'improvviso, muri e saracinesche piombano dall'alto a dividerci, uno dopo l'altra, in rapida successione. Sbam! Sbadabam! Bam! In discoteca!? In discotecaaaaaa!? 
"Non credo proprio!", commento. Però l'espressione del mio viso deve essere molto più eloquente delle mie parole perché il tipo cerca di recuperare mentre io mi sto già sistemando gli occhialini per riprendere a nuotare: "O forse a teatro?"
A teatro? Lo guardo di nuovo, perplessa. Lo immagino che esce da teatro dopo aver assistito a uno spettacolo di prosa, commentando la performance con degli amici. Poi si mette in macchina e va a concludere la serata in discoteca.
"No, non penso.", dico. "Mi sono sbagliata." Gli sorrido, poi mi rimetto a nuotare. E lo ignoro.
Lo ignoro anche quando si issa a bordo vasca e resta là, in piedi, per un lungo momento, a far bella mostra di sé e del suo corpo muscoloso e molto ben proporzionato.
Vai, bello! Vai a fare lo splendido in discoteca, vai.



giovedì 9 ottobre 2014

Del mio lavoro e degli occhi che brillano

Ho dato per scontato che lo sapessero già. Sono in terza media. 
"Sicuramente la professoressa che avevate gli anni scorsi ve l'avrà già detto..." 
Invece non lo sapevano. L'insegnante in questione, non solo non gliel'aveva detto spontaneamente, ma quando uno di loro (un casciarone patentato, certo, ma che c'entra?) aveva provato a chiedere lumi (Che significa 'ES' di fianco all'esercizio?), lei (a quanto mi hanno riferito) ha risposto in maniera inopportuna (Ma pensa agli affari tuoi!). Magari il dialogo non si sarà svolto esattamente così, però resta il fatto che i ragazzi non avevano consapevolezza di un dettaglio - certo non fondamentale, ma - utile per sfruttare al meglio lo strumento 'libro di testo' che hanno in dotazione. Una ragazza, pur di darsi una spiegazione che avesse un senso, aveva ipotizzato che significasse 'Esercizio'. 
Significa 'Esame di Stato', ho spiegato. E ho spiegato anche perché c'era quella sigla là, di fianco a quel particolare esercizio. Subito, un altro, evidentemente confortato dalla mia disponibilità a soddisfare le loro curiosità, mi ha chiesto: "E la 'K', invece, che significa?"

Alcuni colleghi non li capisco. Veramente.

Il primo giorno di lezione ho provato a chiedere in questa stessa classe a quanti piacesse l'inglese (lo faccio sempre nelle seconde e nelle terze per sondare il livello di motivazione generale e capire quanto dovrò impegnarmi per abbattere gli eventuali filtri emotivi presenti). 
Nessuno ha alzato la mano. Si guardavano tra loro con lo sguardo tra l'imbarazzato e il divertito.
'Azz!, ho pensato. Qui c'è da rimboccarsi le maniche forte. 

Non è una cosa che mi scoraggi particolarmente. Mi ci sono abituata. A lottare contro la demotivazione. La lotta suprema dell'insegnante. Dare un senso a quello che facciamo insieme in classe. Dare un senso a loro, prima di tutto. Se ha un senso per loro, allora ha un senso anche per me. 
Dalla mia, ho la passione sincera per la disciplina che insegno e per il lavoro che svolgo. A volte non è sufficiente. Ma io parto sempre convintissima. Ce la farò. Ce la faremo.

L'altro giorno un mio amico ha condiviso un video della serie dei TED Talks su facebook. Benjamin Zander (un famoso direttore d'orchestra) parla di musica classica. Quello che dice è meraviglioso e si può applicare a qualsiasi aspetto della nostra vita, non solo alla musica.
Ad un certo punto, Zander dichiara che, alla fine del suo intervento, tutti quelli che lo stanno ascoltando apprezzeranno la musica classica, compresi anche quelli convinti di essere negati per la musica o convinti di non capire quella classica.
Poi commenta:
Now, you notice that there is not the slightest doubt in my mind that this is going to work if you look at my face, right? It's one of the characteristics of a leader that he not doubt for one moment the capacity of the people he's leading to realize whatever he's dreaming. Imagine if Martin Luther King had said, "I have a dream. Of course, I'm not sure they'll be up to it."
[Avrete notato che il mio viso non tradisce il minimo dubbio a proposito del fatto che questa cosa funzionerà, giusto? E' una delle caratteristiche di un leader il non dubitare neanche per un momento della capacità di coloro che sta guidando di realizzare qualunque cosa stia sognando. Immaginate se Martin Luther King avesse detto, "Io ho un sogno. Ovviamente non sono sicuro che saremo in grado di farlo diventare realtà."]
Credo funzioni allo stesso modo con l'insegnamento. L'insegnante non può avere dubbi a proposito del fatto che i suoi studenti riescano. Deve credere in loro, prima di loro. E non arrendersi mai. Fino alla fine. È sfiancate e spesso anche frustrante ma io credo che non si possa prescindere da questo assunto. Se ci arrendiamo noi per primi, se non crediamo veramente nei nostri ragazzi e nelle loro possibilità, che ci stiamo a fare in classe?

E poi c'è quest'altra cosa che dice Benjamin Zander e che mi ha fatto venire le lacrime agli occhi per la bellezza autentica di quello che significa.
I realized my job was to awaken possibility in other people. And of course, I wanted to know whether I was doing that. And you know how you find out? You look at their eyes. If their eyes are shining, you know you're doing it. (...) If the eyes are not shining, you get to ask a question. And this is the question: who am I being, that my players' eyes are not shining? (...) That's a totally different world.
[Ho capito che il mio lavoro consisteva nello risvegliare possibilità nelle altre persone. E ovviamente volevo sapere se lo stavo facendo. E sapete come scoprirlo? Guardate i loro occhi. Se i loro occhi brillano, sapete che lo state facendo. (...) Se gli occhi non brillano, allora dovete farvi una domanda. E la domanda è questa: chi sono io in questo momento, ché gli occhi dei miei musicisti non brillano? (...) Questo è un mondo completamente diverso.]
Ma perché si accenda una luce negli occhi di chi ci sta seguendo, credo che sia necessario averla già accesa nei nostri, di occhi, una luce.

Credere in quello che stiamo facendo. Essere noi stessi. Essere diversi. Far brillare gli occhi.
E rispondere alle domande che ci vengono poste. 
As simple as that.





lunedì 8 settembre 2014

Riassunto

I sedili della prima classe erano comodi e spaziosi. Eppure la donna non era seduta al suo posto ma in braccio al suo compagno di viaggio. 
In un primo momento, lei aveva pensato a una coppia in vena di tenerezze ma i due erano semplicemente impegnati in una fitta conversazione che si mescolava alla voce monotona del treno. 
Poi la donna aveva ricevuto una telefonata che era andata avanti per le lunghe ma, per tutto il tempo, era restata seduta in braccio al suo compagno che la osservava, l'ascoltava e basta.
Alla fine della telefonata, la donna si era voltata verso il centro della carrozza (a cui i due davano le spalle) e, mentre riponeva il telefono nella borsa, aveva fatto per alzarsi dalle gambe dell'uomo. Quello, però, cercava di trattenerla. Allora lei gli aveva sussurrato: "Ci stanno guardando!"
Alla fine si erano alzati, si erano guardati un attimo attorno ed erano usciti dallo scompartimento.
Su un taschino della camicia dell'uomo c'era il logo delle FS.

Li aveva tagliati. Era da tanto che non li portava così corti. 
All'inizio, le era sembrata un'ottima decisione. Sentiva la testa leggera. 
Poi, invece, no. 
Per amore del vento. Il vento che le spettinava i capelli. Carezze improvvise sul viso, a nasconderle a tratti lo sguardo. 
Per amore della musica danzata. Quando anche i capelli seguono i movimenti del corpo, il ritmo del sangue.
Per la voluttà di affondare le mani in una nuvola soffice che le infondeva tranquillità. 
L'ondeggiare morbido e vivo delle sue ciocche ricce, disordinate, indomabili era un piacere che aveva dimenticato e che riscopriva con un fremito d'orgoglio.
E più i capelli crescevano, più le sembrava di riconoscersi.

La sorpresa. Negli sguardi e nelle parole. Non se l'aspettavano. No.
Perché ci abbagliano le superfici luminose. Perché i nostri giudizi (o ipotesi di giudizio) si basano su un sistema fitto di stereotipi e luoghi comuni. 
Eppure esistono sul serio persone che sfuggono alle classificazioni. Non sopportano le categorie, le etichette e quelli che parlano con te ma ti dicono "voi" o "quelle/i come te".

Sentirsi dire "Sei bellissima!" per la prima volta nella vita è una cosa strana. Lei sa che non è così. Però c'è qualcuno che la vede così. Fino a quando non cambierà idea improvvisamente, ovvio. Perché il danno è evidente. È una pozza densa e appiccicosa al centro dei pensieri. Risucchia tutto quello che ci si poggia su, come le sabbie mobili.
E poi c'è la paura che le fa puntare forte i piedi per terra per frenare. Frenafrenafrena!

Ciò che è indescrivibile. I canali sensoriali completamente aperti, senza filtri, per accedere ad un livello superiore mai sperimentato prima. Dopo, quello che c'era prima, sembra ordinario. Adesso, quello che sa di poter avere, non le basta mai. Una strana forma di dipendenza. Non se l'aspettava. E non le dispiace. 

Dormicchia. Il treno si ferma. Apre gli occhi. I muri al di là del finestrino sono coperti di graffiti. Legge: "Tanto vi lascerete tutti". Ride. Ride con la leggerezza di una alla quale hanno levato di colpo un macigno dal petto. Il treno riparte. Lei chiude di nuovo gli occhi. 
Sorride.

Stazione di Bisceglie (BA)



venerdì 22 agosto 2014

Di Roberta


Sogni dentro sogni, come scatole cinesi, come bambole russe. Sogni incatenati a sogni. Trasformazioni rapide, senza dissolvenze. 

Londra. Metropolitana. Non ricordo quasi niente. Poi Stati Uniti. Forse New York. 
Sono una ragazza nera. Giovanissima. Mi chiamo Cleo, diminutivo di Cleopatra. Sono un'atleta. C'è un ragazzo a cui piaccio moltissimo. Si chiama Cleo pure lui, diminutivo di niente. È alto e muscoloso. Un colosso di ragazzo. Anche lui è un atleta. Per strada c'è gente che gioca, salta, si diverte. Anche noi. A un certo punto lui mi prende teneramente per mano e mi porta in disparte, in una strada tranquilla, dove non c'è nessuno. "Ci siamo allontanati troppo!", gli dico. "Questa non è una bella zona. Potrebbe essere pericoloso." "Di che ti preoccupi?", risponde lui. "Ci sono io qui con te." E comincia a cantare e, cantando, mi rivela che è innamorato di me e che vorrebbe stare con me. Io sorrido, gli butto le braccia al collo e lo bacio. Ci baciamo, insomma. Poi torniamo indietro felici e lui dice che vuole portarmi nella sua casa di campagna. Dice che ci posso andare in macchina con sua nonna (che l'ha tirato su perché i suoi genitori sono entrambi morti quando era piccolo) e che lui ci raggiungerà. 
In macchina, sua nonna diventa bianca. Io la guardo e mi chiedo come sia possibile che abbia un nipote nero.
Arriviamo alla casa in campagna. Siamo ancora in macchina quando la nonnina lancia un grido di stupore. Ha notato qualcosa che non va ma, per quanto io mi guardi attorno, non capisco cosa sia. Dice che devono essere stati dei bambini a rompere (i vasi? il vetro della finestra?). Esco dalla macchina. La nonnina è già entrata in casa. La seguo. Altre esclamazioni di sorpresa e disappunto dall'interno della casa. Entro anch'io e sono io, con il mio corpo e la mia faccia, non più Cleo. La nonnina è in cucina con la mia amica P. In cucina c'è un gran disordine. Anche nella sala da pranzo all'ingresso ci sono dei cocci. "I bambini devono essere entrati!", dice la nonna. 
Per terra, ci sono le impronte di piccoli piedi. Un solo paio. P. ha deciso di usare le sue conoscenze scientifiche per rilevare l'impronta del piede e risalire al suo proprietario. "Lo troveremo!", dice.
Io mi accovaccio davanti alla porta d'ingresso. Osservo l'impronta e capisco. "Non c'è bisogno di andarlo a cercare." Poi chiamo a gran voce: "Bambino! Vieni fuori! Lo sappiamo che sei lì. Esci!" 
E un bambino dell'età di circa otto anni, tutto nudo e con i capelli rasati, esce di corsa da una stanza, cercando di guadagnare l'uscita. Ma io sono accovacciata lì apposta e lo blocco, prendendolo tra le braccia. Lui si divincola. "Ssssh! È tutto a posto.", gli dico cercando di calmarlo. "Sei al sicuro con noi." E mentre l'accarezzo e l'abbraccio, il bambino diventa una bambina con i capelli chiari e lunghissimi tutti arruffati. Il suo corpicino nudo è sporco di sabbia e profuma di mare. 
Quando si è calmata, le chiedo come si chiama. "Roberta.", mi risponde. Le scopro il viso nascosto dai capelli disordinati. È bellissima. Le altre (la nonna e mia sorella - P. non c'è più) dicono che bisognerebbe lavarla e vestirla. Roberta s'innervosisce un'altra volta ma si calma subito quando stabiliamo che sarò io a farlo. 
Prendo un telo di spugna morbido e vado nel bagno della casa, portando Roberta in braccio. La bambina si tiene stretta al mio collo. Il bagno della casa è pulitissimo ma antico. C'è un grande lavandino in pietra e nessuna doccia. Dalla finestra entra una bellissima luce dorata. I colori nel bagno sono chiari, pastellati. Mi ricordo che al piano di sotto, nella zona nuova della casa, c'è una doccia. Potrei andare lì. Invece decido di restare nel vecchio bagno, far sedere Roberta nel grande piano di pietra del lavandino e lavarla, versandole addosso acqua calda con l'aiuto di una brocca. Resteremo lì, nella quiete dorata di quella stanza fuori dal tempo, faremo le cose con lentezza e dolcezza e lei mi racconterà tutto. "Allora, cosa t'è successo? Da dove vieni? Racconta..."

venerdì 8 agosto 2014

Di un sogno che ha provato a trasformarsi in racconto


Merda! Ho dimenticato il numero del codice per azionare l’ascensore. E ho lasciato a casa il foglio su cui era scritto.
Dice, torna a casa a prenderlo, no?
No. L’ascensore mi serve, appunto, per salire al mio piano e tornare a casa.
Dice, ma non ci sono le scale?
No, non ci sono scale nel condominio. C’è solo questo dannatissimo ascensore per spostarsi da un piano all’altro.
Dice, a che piano abiti?
Al terzo. Però è la prima fermata dell’ascensore. E non chiedermi che stranezza sia mai questa perché non me lo spiego neppure io. È un condominio un po’ originale, il mio. Adesso me ne resto qui, vicino all’ascensore, e aspetto che arrivi qualcuno che abiti al mio piano, che apra il pannello lì sul muro, digiti correttamente il codice sul tastierino digitale e mi dia un passaggio su. Non appena rientro a casa, prendo il foglio con il codice dell’ascensore e me lo ficco in tasca, così evito che mi capiti un’altra volta una seccatura del genere.
Dice, ma chi sono quelle persone lì, intorno a te, nell’androne del palazzo? C’è una donna con un bambino vicino alle cassette delle lettere e diversi uomini che sembra aspettino senza fare nulla. Nessuno di loro abita al tuo piano?
Loro non sono vivi. Sono ombre. Sono quello che resta dei sogni perduti. Non so perché siano qui ma, se li ignori e non ti lasci spaventare dalla loro presenza, non si accorgono nemmeno di noi vivi e sono innocui. Però fiutano la paura e la paura li rende aggressivi.
Dice, e quella giovane donna che è appena entrata dando la mano a un bambino, chi è?
Ah, ecco! Lei è una mia vicina di casa.
Bene.

- Salve!
- Buongiorno!
- Si ricorda di me? Sono il suo nuovo vicino di casa. Mi sono trasferito qui da poco. Non riesco a ricordare il codice per l’ascensore. Le dispiace se salgo al piano con voi?
- Certo, mi ricordo di lei. Il tipo giovane dell’appartamento di fronte. Nessun problema… ma… oddio! Chi sono queste persone?
- Stia tranquilla! Non sono reali. Sono come fantasmi. Non le faranno nulla se resta calma. Faccia finta che non ci siano.
- Come faccio a restare calma? Qui c’è il mio bambino! Potrebbero fargli del male…
- Ma no! Le dico che, se mantiene i nervi saldi, andrà tutto bene. Digiti il codice dell’ascensore e andiamo via alla svelta da qui.
- D’accordo… ma quanti sono!? Stanno aumentando!
- Non li guardi. Digiti il codice. Se si fa prendere dal panico, si accorgeranno di noi e allora diventerà pericoloso. Faccia presto e digiti il codice, per cortesia!
- Non me lo ricordo! Non me lo ricordo più, il codice! Il mio bambino!

Ok. Questa deficiente è andata e ha pure attirato l’attenzione degli zombie su di noi.
Adesso cerchiamo di cavarci dai pasticci in qualche modo prima che vada a finire male.
Ho già inserito il codice un paio di volte nei giorni scorsi. Forse riesco a ricordarlo. Ce l’avrò ancora annidato da qualche parte nel mio cervello. Se solo quella la smettesse di piagnucolare e si rendesse utile!
Apro il pannello sul muro e vediamo se la memoria mi viene in soccorso…
Accidenti! Che diavolo è successo ai numeri della tastiera? Sono tutti scombinati. E perché continuano a spostarsi così velocemente? Appena digito una cifra, i numeri si mescolano, il display s’azzera e mi tocca ricominciare da capo. Come faccio a digitare tutto il codice per intero in questo modo? Non ci riesco. 
Maledizione! Gli zombie ci hanno visto e non sembrano affatto contenti. Ci stanno accerchiando. Tra un momento ci saranno addosso.
Ecco, adesso io vorrei sapere chi è quel genio di architetto che ha progettato un condominio senza scale.

Dice, il tuo ultimo pensiero prima del buio, lo sprechi per un architetto?
Dico, sì.





sabato 5 luglio 2014

Delle riflessioni originate da una vecchia Citroën ZX

Quando si percorre in auto la stessa strada per tutto un autunno e un inverno e una primavera e un inizio d'estate, a un certo punto, è facile spazientirsi se ci si trova davanti mezzi lenti. (O, almeno, a me succede facilmente.) 
Perciò, quando ieri mattina mi è capitato l'esatto contrario, ho trovato il fatto sorprendentemente piacevole.
Strada Alberobello - Locorotondo. Ho raggiunto una vecchia Citroën ZX che procedeva lentissimamente e non potevo superarla. Così ho notato che, alla guida dell'auto, c'era un uomo anziano, capelli bianchi, calvizie avanzata, non molto alto, con dei grossi occhiali da vista. Di fianco, era seduta una donna giovane, capelli scuri e lunghi, raccolti in una coda. Chiacchieravano e, chiacchierando, gesticolavano molto. Ma non stavano litigando. Discutevano. Parlavano. Ogni tanto, le loro teste s'avvicinavano, forse per capirsi meglio.
Non so dire perché sia successo ma questa scenetta, osservata attraverso l'ampio lunotto posteriore della Citroën, mi ha riempita improvvisamente di tenerezza e mi ha rilassata moltissimo. A tratti, mi scappava anche un sorriso. Come quando hanno rallentato fino a 40 km orari per osservare qualcosa in un campo o, forse, una casa. 
Non so. Le loro teste e i loro gesti mi avevano incantata. Erano come una voce antica e rassicurante. Il richiamo dolce di una dimensione troppo spesso dimenticata.
E poi riflettevo sul fatto che gli abitacoli delle auto di qualche anno fa erano molto più luminosi di adesso. Parabrezza, lunotti posteriori e laterali e finestrini erano più ampi, più chiari. Lasciavano entrare tanta luce. Creavano meno distacco tra il dentro e il fuori. Anche le linee delle auto erano più lunghe e distese. Moltissime auto di adesso, invece, assomigliano a gusci. Sono come involucri protettivi, come scudi. Certi lunotti posteriori, poi, sono così stretti che anche le manovre in retromarcia diventano più difficili. Il design automobilistico contemporaneo come metafora dell'atteggiamento di una società che si difende dall'altro trincerandosi in sé stessa, tronfia delle proprie conquiste tecnologiche; preoccupata più di difendersi da che di stabilire relazioni con il "fuori".
È che siamo diventati tutti più sospettosi, più timorosi, più cinici, più egoisti. Più tristi, anche. Sicuramente più soli.




venerdì 13 giugno 2014

Di un amore senza fine

C'è vento. Un vento fresco. L'acqua nella cala è calma ma, sullo scoglio, il vento scompiglia i capelli e fischia nelle orecchie. La voce gorgogliante dei flutti marini è un sottofondo incantevole. Oltre ciò, solo il canto degli uccelli. Non c'è nessuno sullo scoglio adesso. Soltanto io.
Resto incantata in piedi sulla roccia con la pelle ancora gocciolante dopo il mio ultimo bagno. I capelli bagnati mi accarezzano il viso al ritmo irrequieto del vento. Gli occhi persi nell'azzurro cangiante del mare. Dopotutto s'appartengono, i miei occhi e il mare. Condividono la stessa trasparenza e lo stesso colore. 
Sono a casa.

*

Le occhiate sono pesci simpatici.
M'immergo, mi giro sott'acqua e mi guardo indietro mentre nuoto e loro sono là che nuotano con me. Mi tengono compagnia e mi fanno ridere.

*

Mentre mi preparo al tuffo dalla roccia, fissando il verde brillante sotto di me e pregustando il momento in cui scomparirò completamente nell'acqua, mi ritrovo a mormorare: "Amore mio!"
...
Mare mio, ma tu lo senti quanto ti amo?

*

Pensiero polemico prima di andar via
Tu, donna che arrivi a mare che è già passato mezzogiorno, in compagnia di uno che dimostra il doppio dei tuoi anni, con il cappellino da baseball, gli occhiali da sole da gran fica, gli stivali ai piedi, tre borse di diverso tipo (di cui una nera tutta sbrilluccicosa) e il pezzo di sotto del bikini stile filo interdentale, senti a me, vai a Lido Morelli ché questa cala non è posto per te.


sabato 7 giugno 2014

Di un uomo che ho lasciato andare

Eravamo in metropolitana. A Roma. Era seduto di fronte a me. Non c'era nessuno in piedi tra di noi. Chiacchieravamo. 
A un certo punto, lui ha notato il mio anello e mi ha detto: "I like your ring." Si trattava di un anello in acciaio dalla forma quadrata. A riempire il quadrato lucido, c'erano nove piccoli quadrati di silicone azzurro.
"Oh, yes. Thanks.", ho risposto io. "I like it, too. It's a gift and...", ho spostato il quadrato d'acciaio lateralmente a lasciare solo un lato affilato che sporgeva tra medio e anulare. "... and it can become a dangerous weapon if you turn it like this." 
Ho sollevato lo sguardo verso di lui, sorridendo. E lui ha ricambiato lo sguardo fissandomi dritto negli occhi. Intensamente. Per pochi attimi non ha detto nulla. Poi: "Your eyes are your weapon."
Oggi, mi rendo finalmente conto, nessuno mai più di lui. 
Nessuno.



martedì 3 giugno 2014

Di un ricordo del corpo che, a volte, ritorna felice e vero

I muscoli si tendono. Poi si contraggono. 
Sento il corpo. Lo sento tutto. Ha risucchiato la mente nelle vene. E adesso respiriamo libere. Io e lei. Abitiamo l'aria, sfidiamo lo spazio e la forza di gravità. 
La gioia s'impossessa di ogni fremito della pelle. 
Sono viva. Assolutamente, completamente, indiscutibilmente viva.
...
I want more.


lunedì 26 maggio 2014

Dell'abbraccio che salva dal vuoto

Essere sveglio significa essere disponibile per il tormento, e questo è il significato più autenticamente compiuto della vita.
- Patrick McGrath, Spider

La sofferenza non si può evitare. Capita. Arriva all'improvviso. Ti s'attacca addosso. S'insinua sotto pelle. È una conseguenza della vita. Dell'amore.
A volte, il dolore è così forte che lascia senza fiato. Ti succhia via l'energia, la voglia di alzare gli occhi al cielo, di sorridere ancora.

La cura più bella è in quelle mani che si cercano, si trovano e si stringono. Che dicono 'qualsiasi cosa accada, io ci sono'. Gli occhi che s'incontrano e si parlano senza bisogno di parole. Stesse mani e stessi occhi che attraversano gli anni. Insieme. Vicini. L'abbraccio che salva dal vuoto. 

Io pensavo di averlo trovato, il mio abbraccio che salva dal vuoto. 
Era una bugia.

Peccato.