venerdì 12 gennaio 2018

Delle dighe che crollano

La prima forma di protezione è far finta di non vedere, ignorare, negare.
È uno stadio che può durare a lungo. In alcuni casi, non finisce mai.
Ma, quando finisce, la presa di coscienza, il riconoscimento, è improvviso e le conseguenze di ciò sono ineluttabili. Come una diga che crolla. Le crepe c’erano, ben visibili, ma sono state ignorate. E la diga, alla fine, ha ceduto. Tutto quello che c’era al di là della diga viene travolto dalla potenza dirompente dell’acqua trattenuta a forza nel bacino. Una vastità di lacrime. Bisogna piangerle tutte prima che ritorni la quiete; prima che l’acqua occupi lo spazio che le è naturalmente proprio e si plachi.
Ma anche dopo, quando le lacrime sono state piante tutte, bisogna affrontare la distruzione che il crollo della diga ha comportato; contare i morti e i feriti gravi, gli alberi abbattuti, gli animali trascinati via, la terra mangiata dall’acqua, sommersa. Un disastro. 
Eccetto che per l’acqua che, finalmente, ha rotto i muri troppo stretti che la trattenevano e ha potuto scorrere liberamente, prendere più spazio. Tutto quello che ha potuto. Tutto quello che naturalmente le appartiene. Gli uomini l'avevano intrappolata per poter disporre della sua energia, per soddisfare i propri bisogni. Ma sono diventati superficiali e arroganti. Hanno ignorato le crepe, i cedimenti strutturali. E l’acqua ha rotto la diga.

L’acqua ha rotto la diga.
Forse non è il caso di costruirne un’altra. Non ancora. Prima bisogna imparare a costruire meglio le dighe.



2 commenti: